“Zeru tituli” si può dire anche a Wall Street. I grandi gestori di fondi globali minimizzano. Sono scettici. In realtà hanno paura. Puntano a non rovinare l’ipocrita festa dell’infinito rialzo a New York e su tutte le borse, asimmetrico e anzi inversamente proporzionale rispetto ai 3,25 milioni di morti di Covid. Ma cosa si prepara per l’élite di padroni del mondo che continua a vedere bianco un cigno nero, mille volte annunciato?

Per cominciare, e non è roba solo da ingegneri, c’è su scala globale una forte carenza di semiconduttori. Si usano in tutto ciò che è elettronico, sfida non eclatante per il grande pubblico ma vitale. I chip, o la mancanza degli stessi, pesano sull’azionario e sulle fabbriche, quindi anche sul lavoro. L’Amministratore delegato di Intel, numero uno del settore, spiega che il problema potrebbe durare non per qualche settimana ma “per qualche anno”. Le prime a farne le spese sono le aziende auto (la quantità di informazioni processate in un veicolo dai microchip è enorme) ma pensate all’elettronica di consumo, per esempio la nuova PlayStation 5 rimane molto difficile da trovare. Da questa parte dell’Atlantico, in Germania, le fabbriche Ford e della franco-italiana Psa-Fca, ora Stellantis, sono alle prese con licenziamenti (temporanei?) e lunghe interruzioni nella produzione: senza semiconduttori l’auto è morta. Anche nel resto d’Europa c’è un accumulo record di ordinativi non evasi e soprattutto – ecco il punto – prezzi in crescita.

Va considerata poi la grave valenza geopolitica. Uno dei consiglieri economici del presidente Joe Biden per risolvere il problema dei microchip ha cercato l’aiuto del governo di Taiwan che ha favorito la crescente dipendenza mondiale da due potenze asiatiche: Taiwan Semiconductor Manufacturing e Samsung Electronics. È tra i motivi per cui i legami tra Europa e Cina si sono deteriorati rapidamente, al punto che Bruxelles ha appena disdetto l’accordo tra Ue e Pechino sugli investimenti in Cina firmato pochi mesi fa. Purtroppo le capitali europee (Roma in testa e con l’esclusione di Berlino) si adeguano sempre più pedissequamente alla strategia da “guerra fredda” della Casa Bianca contro il Dragone. Il che non promette bene.

Allargando gli orizzonti, negli Stati Uniti si discute del gigantesco piano di spese keynesiane di 4 trilioni di dollari (quattromila miliardi, in aggiunta agli $1,9 trilioni pompati nell’economia a partire da marzo per combattere l’impatto della pandemia) proposti da Joe Biden, non “Sleepy Joe” ma invece aggressivo e determinato, appena doppiati i primi 100 giorni da Presidente. Tutto ora è nelle mani del Congresso, forse un compromesso con i repubblicani consentirà di approvare la maxi ciambella di salvataggio per un’America di nuovo targata John Maynard Keynes.

“Sono investimenti di cui la nostra economia ha bisogno per essere competitiva, tornare ad essere produttiva e crescere velocemente”, ha detto Janet Yellen, la donna più potente del mondo, ministra del Tesoro Usa, ex presidente della Federal Reserve ed ex responsabile dei consiglieri economici della Casa Bianca. La signora ha però aggiunto: “In questo scenario i tassi d’interesse dovranno salire, per evitare che l’economia si surriscaldi”. E via alle fibrillazioni e sell in borsa. Big finanziari nervosi. Meglio ripetere: “I tassi dovranno salire”. Già. Poco più di un anno fa si parlava solo di “spirale deflazionistica”, dovuta al crollo verticale delle economie per il dilagare del Covid e alla perdita di milioni di posti di lavoro. Il quadro macro non solo è cambiato, si è ribaltato.

Adesso chi ha, o manovra, denaro si preoccupa che i prezzi e l’inflazione non sfuggano di mano. L’arrivo dei vaccini (rapidissimo in termini oggettivi) ha stimolato la riapertura delle economie, soprattutto in Uk e negli Usa ma adesso anche in Europa. Mario Draghi al G20 ha aperto l’Italia ai turisti di tutto il mondo. E ci voleva. Di conseguenza la domanda di consumi, compressa per vari trimestri come una molla, sarà liberata. Negli Usa con l’enorme potenza di un programma di stimoli inaudito (i 248 miliardi del Recovery Plan che dovrebbero non solo far riprendere vita all’Italia ma evitarci il fallimento e con esso la “rottura” dell’euro, sono briciole – appena il 5% – rispetto al mega piano a stelle e strisce da quasi $6 trilioni).

Allora diciamolo: se il fantasma che si aggira per il mondo è l’inflazione, i rialzisti doc che operano in borsa con livelli di leverage speculativo record, non ne vogliono sentir parlare. Ma come si fa a ignorare che anche i prezzi delle materie prime industriali tipo palladio, rame, argento e altre sono saliti fino ai massimi pluriennali, così come le aspettative di inflazione implicite? All’improvviso perfino il costo del legname sale e il mercato immobiliare dagli Stati Uniti alla Nuova Zelanda si surriscalda (per costruire case loro usano il legno).

Dal punto di vista macro gli “stagnazionisti”, chiamiamoli così, dicono che l’indebolimento dei prezzi è l’unica vera sfida a lungo termine per le economie. Colli di bottiglia dell’offerta nel settore manifatturiero? Avranno solo un impatto di breve periodo. Nel post-pandemia la capacità produttiva tornerà presto in regola. Così chi è investito massicciamente sui mercati sa che, se ulteriori timori inflazionistici daranno la stura a improvvisi sell-off sull’obbligazionario – quindi rialzo dei tassi e calo dei prezzi di bond e azioni –, sarà un’opportunità di acquisto e non un tracollo prossimo venturo. Ma è veramente così? Consigliabile considerare scenari alternativi.

Qui da noi, in Eurolandia, i tassi stanno aumentando da varie settimane (basta vedere i grafici del bund e del btp a 10 anni). Sebbene sia ancora bassa rispetto agli standard storici, l’aumento dell’inflazione nella fase post-Covid, e quindi del costo del debito, in poco tempo potrebbe diventare un problema maledettamente serio. Per l’Italia la soglia è stretta, visto che il governo Draghi ha annunciato un deficit rivisto per il 2021 all’11,8%, addirittura superiore al 10,8% dello scorso anno. Con un rapporto debito/Pil al 160% e i soldi del Next Generation Eu che si stima contribuiranno alla crescita solo per il 3,6% in quattro anni, è facile vedere come qualsiasi aumento dei tassi spingerà Roma sull’orlo del baratro.

Altro che le candidature di Draghi o Cartabia al Quirinale: ben più seri sono i problemi per noi italiani. Ulteriori stimoli fiscali europei, pallida imitazione del potente piano di spesa all’americana, saranno non pervenuti. E, dicono i rumor di mercato, l’unica opzione è che la Bce continui ad acquistare per intero il debito sovrano emesso dagli stati (Eurotower ha già comprato oltre 450 miliardi di titoli del Tesoro italiano). Poiché il bilancio della banca centrale è oggi già al 60% del Pil dell’Eurozona e le performance dei vari paesi iniziano a divergere, per Roma che è fanalino di coda in Ue, e di conseguenza per l’intera area dell’euro, il momento della verità si avvicina.

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