di Michele Diomà

Il post che state per leggere è ad alto contenuto cinefilo, ma non temete, nessuno si sentirà escluso, perché quella che vado a proporvi è una storia tragica con un finale ridicolo, in sintesi “una storia italiana”.

Partiamo da un punto, vi sarà capitato alcuni giorni fa di ascoltare o di leggere una news dal Palazzo presentata con toni gloriosi nella quale si annunciava “l’abolizione della censura cinematografica”, quasi come se fosse giunta l’ora di brindare per la caduta di un bavaglio che andava avanti da anni. Eppure, fino a ieri, a noi sventurati registi del Bel Paese è sempre stato detto che eravamo liberi, dunque se “eravamo liberi” da quale censura ci hanno liberati? Primo buco di sceneggiatura.

Ma procediamo per gradi, il cinema italiano “è stato” quel fenomeno culturale ed industriale che ha permesso la realizzazione di film non ossequiosi verso il Potere, anzi spesso estremamente critici nei confronti di una classe politica che identificava come colpevole dei tanti mali del paese. Poi qualcosa si è rotto, film come Il caso Mattei di Francesco Rosi improvvisamente non è stato più possibile neanche immaginarli, dunque come è avvenuta questa involuzione?

La risposta è apocalitticamente semplice: il cinema italiano è diventato tutto statale! Con un effetto collaterale che abbiamo sotto gli occhi, i “carnefici” hanno assunto anche il ruolo “dei giudici”. Uno scenario nel quale “ovviamente” la censura non ha motivo di esistere, ma cosa accadrebbe se per un caso fortuito un giovane e sprovveduto regista riuscisse a girare un film di satira dedicato ai limiti della libertà di espressione nel nostro paese, riuscendo a coinvolgere nel progetto anche l’ultimo premio Nobel per la letteratura italiano?

A me è capitato alcuni anni fa, dirigendo Sweet Democracy, film che si avvale anche della partecipazione di Dario Fo, ed in cui l’autore di Mistero Buffo parla liberamente di temi come il caso Moro, l’integrazione etnica e religiosa in Italia, la resistenza e anche di censura. Un valore aggiunto, la special guest del Maestro, che paradossalmente ha come “condannato” il film alla incomprensibile diffidenza da parte di alcuni rappresentanti della Rai a tutelarlo e a mostrarlo al pubblico.

Nonostante la Rai avrebbe il dovere di preservare un documento storico in cui compare anche un premio Nobel, oltretutto in un film indipendente con un percorso internazionale positivo. Nell’ottobre 2017, grazie alla prima newyorkese di Sweet Democracy ebbe inizio il mio rapporto di collaborazione con il premio Oscar James Ivory, da cui poi è nato un film interamente girato a Manhattan ed in lingua inglese.

Ecco perché quando nei giorni scorsi ho letto in prima pagina un po’ ovunque “abolizione della censura cinematografica” come se avessimo vinto i mondiali della libertà di stampa, ho percepito il senso intrinseco e metafisico di supercazzoliana memoria dell’annuncio. Citazione poetica. In sintesi è stata soltanto cambiata una modalità di valutazione dei film destinati ad essere distribuiti nelle sale, “operazione marketing” governativa che oltretutto in questo momento ha il sapore della battuta di cattivo gusto, come se dicessi “oggi gioco a tre sette col morto” ad una persona con un infarto in corso.

Inoltre, la censura cinematografica non ha motivo di esistere da anni anche per una caratteristica antropologica dei registi italiani, ormai consapevoli del proprio ruolo da subalterni all’interno della “macchina cinema”, una condizione che porta all’auto-censura e che forse si potrebbe in parte risolvere con l’avvicendamento di chi ha il potere di decidere quali film contribuire a produrre e quali no. Un passaggio determinante in cui la politica potrebbe incidere, almeno in Rai, facendo rispettare semplicemente “dei limiti di mandato”.

Ma gli esponenti politici, in particolare coloro che sono giunti “sullo scranno” dicendo di voler cambiare le cose, hanno davvero il desiderio di mutarle? E soprattutto amano il cinema? Conoscono la storia, quella sul serio gloriosa, della Settima Arte made in Italy? Hanno mai visto Todo Modo di Elio Petri, nel quale venivano profeticamente anticipati molti fatti che hanno cambiato in maniera drammatica la nostra Repubblica? Sanno che in Ginger e Fred Federico Fellini profetizzò che la tv commerciale avrebbe lacerato in profondità il grado di democrazia in Italia?

Potrei continuare, ma che senso avrebbe? Rischierei di sembrare anacronistico, ormai siamo liberi, la censura cinematografica è stata abolita.

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