Cultura

Paolo Rossi e la sua autobiografia “Meglio dal vivo che dal morto”: l’attore racconta battute, incontri, grandi plateali flop e una storiella surreale

Ci sono perfino i folli Racconti Neuropandemici (“Tornare alla normalità: il problema per me non era tornare alla normalità, il problema per me era la normalità”) dove potremmo pure pensare che quell’insolito 25 aprile 2020 Paolino l’ha davvero passato così, in casa, in pieno lockdown, vestito di tutto punto, con striscioni, fazzoletto rosso al collo, a bussare sulla porta in senso inverso, cioè dalla parte interna, urlando: “Fateci uscire!”

di Davide Turrini

Possiamo dire una cosa banale, anzi due, nell’aprire la recensione di Meglio dal vivo che dal morto (Solferino), la biografia confessione di Paolo Rossi? Ebbene, la prima è che questo libro fa sbellicare dalle risa. La seconda è che un testo del genere, monologo scritto in prima persona da Rossi, che ha fatto dei suoi tempi comici – pause, grugni, sgranare di occhi, accelerate, farfugliamenti – uno stile inconfondibile, deve essere letto immaginando proprio Paolo mentre recita con la sua voce riga per riga modello Su la Testa!. Altrimenti il giochino, un po’ come si è fatto per Libro di Maccio Capatonda (Mondadori) e Vipp di Nino Frassica (Einaudi), non rende quanto dovrebbe. Quindi, insomma, dato per assodato che sapete azionare anche questa leva della fantasia eccovi Paolo Rossi che si genuflette e si confessa al dio William Shakespeare.

Lo sguardo, le parole, la devozione rivolta al Bardo sono una felice trovata retorica che serve a Rossi per introdurci in quella dimensione della sua comicità che si situa all’incrocio tra il dissacrante, la satira e il demenziale di una certa genia di stand-up comedian statunitensi. Sta di fatto che ad ogni rivolgimento, preghiera, appello verso il nume William, Rossi rievoca ricordi personali e professionali, e per farlo racconta storie. Quanto ci sia di vero (e ce n’è) e quanto ci sia di leggermente inventato (ce n’è anche di questo, sicuro) alla base c’è la Milano anni sessanta-settanta del cabaret del Derby, la malavita, le ragazze facili, Jannacci, Gaber, Fo, ma anche improbabili attori dal grande passato che poi fanno volteggiare la ballerina del numero fino a spaccare l’americana, ovvero la fila di luci orizzontali da palco che al Derby era più bassa del solito. Paradossale Rossi. Racconta battute, incontri, grandi plateali flop – sembra ce ne sia uno in cui lui, Gaber, Jannacci e Felice Andreasi recitano Beckett e Gaber opta per un terrificante bip elettronico nelle pause beckettiane – e poi devia in una storiella irresistibile, surreale, tra un cocainomane e un pappagallo.

William ascolta (esortativo, ma anche contemplativo). Lo “gnomo” Rossi che si ritrova pagato e spesato da un politico di Forza Italia a Cerda, la patria del carciofo, a 30 chilometri da Palermo. Lo “gnomo” Rossi e il sogno lucido di mezzo inverno, quando acquista un’autobomba e muore più volte, andando in paradiso (dove incontra Madre Teresa – “Oh, senza tutti quei lebbrosi attorno era finalmente allegra! Divertente, faceva le battute, e poi era vestita a modino, finalmente un bel tailleur” – e Hitler – “Io nel bunker ho fatto un sacco di buone azioni, sono stato gentile con tutti”) o all’inferno Gandhi (“Guarda, non parliamone neanche, un seghino a quattordici anni! Ma ti pare possibile? Ho fatto ricorso, ma sto aspettando”). Cosa è vero e cosa è falso, siore e siori? Siete davvero sicuri? L’arte dell’attore è far credere così bene ad una realtà perlopiù fittizia per trascinarci dentro allo spettacolo che vuole lui. Ed in questo Rossi è maestro dell’affabulazione.

Ci sono perfino i folli Racconti Neuropandemici (“Tornare alla normalità: il problema per me non era tornare alla normalità, il problema per me era la normalità”) dove potremmo pure pensare che quell’insolito 25 aprile 2020 Paolino l’ha davvero passato così, in casa, in pieno lockdown, vestito di tutto punto, con striscioni, fazzoletto rosso al collo, a bussare sulla porta in senso inverso, cioè dalla parte interna, urlando: “Fateci uscire!”. “Io sono abituato a lavorare per duecento lire o per due, per me non c’è molta differenza, ma è il metodo di lavoro che è importante. E il metodo è: sul palco si può fare qualsiasi cosa, smontare la scaletta, ribaltarla, qualsiasi cosa”, spiega il saltimbanco, il commediante,l’amante folle di teatro che di fronte al classico “deve andare oltre, deve aggiungere qualcosa, comunque, di suo. Qualcosa del suo tempo. Un pensiero, un progetto, un’azione, un punto di vista differente che arriva inaspettato, nuovo”. Eccolo allora Paolo Rossi da Monfalcone (luogo non più di tristezza estrema più di Venezia, ma ambientazione della spassosa storia di un cane blu) nel cimentarsi in un paio di riletture celebri: Qualcuno era comunista di Gaber (sul malinconico spinto) e un Quelli che… di Jannacci, trascinante finale di un intramontabile, instancabile, beffardo commediante.

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