Sono passate sì e no tre settimane dall’autocelebrazione con cui lo stratega di Rignano si pavoneggiava dalle pagine del NYT per il colpo di mano con cui aveva disarcionato Conte, “insediato” Draghi e terremotato PD e M5S: “E’ stato tutto un gioco di tattiche parlamentari. E diciamo che lavorare per cinque anni nel palazzo dove lavorò Machiavelli ha aiutato un po’. Questa è stata la mia strategia. Ho fatto fatto tutto da solo con il 3%. E’ stata l’operazione più complessa della mia carriera”.

E’ probabile che in effetti un rozzo machiavellismo abbia ispirato le manovre dell’ex-rottamatore che agli intrighi in patria ha alternato “le consulenze” encomiastiche per il suo munifico Principe di Riyad così somigliante, almeno nella ferocia, al Valentino archetipo per Il Principe di Machiavelli. Solo che il suo capolavoro di astuzia in un tempo brevissimo si sta anche risolvendo in una formidabile rivincita per quelli che lui credeva di avere brillantemente distrutto: prima Giuseppe Conte ed ora quanto mai inaspettatamente Enrico Letta, rientrato nell’agone politico solo grazie ai suoi machiavellici maneggi.

Un fallimento che, secondo il paradigma applicato da Machiavelli al suo eccezionale modello politico, incapace di errori, andrebbe attribuito ad una “estraordinaria ed estrema malignità di fortuna”, ma che richiama immediatamente l’inesorabile nemesi concepita dai greci per l’hybristes, colui che “è andato oltre” verso la superbia, la tracotanza, la prevaricazione, la violenza.

E tutti i sondaggi confermano inesorabilmente che il trionfo tattico dello statista di Rignano ha come contrappeso la discesa costante di IV ed il balzo in avanti del M5S a guida Conte, ma ancora di più, in termini di fiducia degli italiani nei confronti dei leader politici mentre l’ex premier è con il 55% secondo solo a Draghi al 63%, Matteo Renzi con il 10% continua ad essere sempre ultimo (Rilevazione Ixè del 10 marzo).

Inoltre l’avvento del governo Draghi rivendicato come “il capolavoro” di una spregiudicata carriera politica sta comportando un altro effetto collaterale non preventivato dalla machiavellica volpe di Rignano: il ritorno sulla scena politica di un ex premier, già candidato alla segreteria del PD nel 2007 di cui diventa vicesegretario nel 2009 a seguito delle primarie vinte da Luigi Bersani. Poi, ed è storia universalmente nota, nel gennaio del 2014 quando è a Palazzo Chigi alla guida di un governo di larghe intese, mentre il PD era già in mano di Renzi, viene sfrattato dalla sera alla mattina dall’ex rottamatore che si insedia al suo posto dopo averlo rassicurato con il memorabile “Enrico stai sereno”. Il passaggio di consegne tra il defenestrato ed il successore, privo anche lui di investitura popolare ma sostenuto da tutte le correnti del PD che con un voltafaccia repentino erano passate dalla parte del “pugnalatore”, è rimasto celebre per la percepibile freddezza unita a manifesto disgusto con cui Enrico Letta consegnò la campanella nelle mani di un Renzi più tronfio che mai.

Ora sette anni dopo un PD al capolinea, in stato confusionale, dilaniato dalla guerra intestina tra le correnti, dai malumori per le poltrone assegnate e soprattutto negate all’interno di un Governo con Salvini, tuttora fortemente condizionato dalle robuste quinte colonne renziane si è rivolto, all’indomani dell’addio traumatico di Zingaretti, ad Enrico Letta fuori dai giochi dai tempi del suo brutale siluramento.

Il principale regista dell’operazione è stato Nicola Zingaretti a sua volta disgustato, forse un po’ tardivamente, dal degrado raggiunto con la caccia alle poltrone, dal “lavorio distruttivo e le polemiche pubbliche senza alcuna proposta alternativa che rischiavano di farci implodere”. E ha visto in Enrico Letta, certamente non un homo novus ma sicuramente uno che ha saputo farsi da parte e dedicarsi a qualcosa di meno degradante di un agire politico inteso come ricerca ossessiva del “particulare” e del tatticismo fine a se stesso. “La sua forza e la sua autorevolezza sono la migliore garanzia per il rilancio della nostra sfida di grande partito popolare” in vista “del rafforzamento di un PD autonomo in coalizioni competitive” con un chiaro riferimento al processo in corso nel M5S e alla leadership conclamata di Giuseppe Conte.

Enrico Letta con il suo sì alla sua candidatura, che ora con la consueta ipocrisia viene accolta senza apparenti condizioni anche dai renziani in servizio permanente effettivo nel PD a cominciare da Lotti, Guerini, Marcucci, Morani, Bonafé ecc.), sembra aver risposto affermativamente anche alla direzione tracciata da Zingaretti, precisando, non a caso, che ai votanti in assemblea non chiede l’unanimità ma “la verità nei rapporti tra noi per uscire da questa crisi e guardare lontano”.

A questo punto “la verità nei rapporti” include anche fare presente in modo molto chiaro agli orfani di Renzi, rimasti nel PD per affossare qualsiasi segretario non pregiudizialmente ostile al M5S, che per i sabotatori di professione spalleggiatori dell’innominabile non c’è spazio nel partito che lui dovrebbe rianimare. Il curriculum di Enrico Letta, sotto questo profilo, sembrerebbe una garanzia.

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