Una recente ricerca di Mediobanca ha evidenziato alcune peculiarità del nostro servizio pubblico rispetto agli altri enti pubblici europei: la prevalenza per la Rai dei ricavi da pubblicità, l’inferiorità del nostro canone unitario, e di conseguenza la disponibilità di minori ricavi (ad esclusione della Spagna, dove il servizio pubblico è di limitate dimensioni e finanziato in prevalenza da sovvenzioni governative).

Proprio i bassi ricavi da canone hanno costretto la Rai a rivolgersi in modo consistente al mercato pubblicitario. Ciò ha determinato che il nostro servizio pubblico sia il più commerciale d’Europa; quali considerazioni possiamo trarre?

L’intervento dello Stato nel settore della comunicazione audiovisiva attraverso un’impresa pubblica trova giustificazione nelle funzioni di servizio pubblico (specificate nei “contratti di servizio” fra lo Stato e la concessionaria) che la Rai deve svolgere, una attività che le imprese private, per incapacità oppure per convenienza, non svolgono. Ma se la Rai compete nello stesso segmento di mercato dei privati, cioè quello della pubblicità, non rischia di comportarsi come le Tv commerciali e quindi di omologarsi ad esse? Tale rischio è concreto, come conferma la competizione, in cui la Rai è una protagonista, sul fronte degli ascolti.

La Rai è finanziata per circa i due terzi dal canone, un’entrata certa essendo una tassa, del tutto svincolata dalla qualità dell’offerta. I maggiori ricavi può attingerli solo dalla pubblicità, che sono pari a circa il 32% (si ricorda che la Bbc è senza la pubblicità e che i suoi alti ricavi commerciali derivano dalla vendita dei programmi). Il problema è capire se la pubblicità sia per la Rai uno stimolo a confrontarsi con le esigenze del pubblico, oppure un freno per una programmazione di qualità. Il ricorso agli introiti della pubblicità tende ad “alleggerire” la programmazione, ma evita anche che la programmazione finisca per essere riservata alle élite. La Tv, per principio, deve “parlare” a tutti e non a ristretti gruppi. Forse pochi sanno che gli ascoltatori prevalenti della Rai sono i ceti bassi e quelli alti (a differenza di Mediaset che privilegia i ceti cosiddetti medi) e ciò può considerarsi una prerogativa non proprio negativa.

Nel suo complesso, la programmazione della Rai, nonostante i limiti di questi ultimi anni, ha una sua propria specificità. Se si togliessero i marchi identificativi delle singole reti, è molto probabile che dal programma in onda si riconosca quale sia una rete della Rai. Pensiamo per esempio alle fiction, un prodotto di eccellenza Rai. Diciamo quindi che, nonostante l’influenza della pubblicità, la Rai conferma ancora, seppur con fatica, il suo ruolo. Siamo arrivati comunque ad un punto in cui bisognerebbe frenare il peso delle logiche pubblicitarie sulla programmazione, peso che si riflette anche sulla gestione, come dimostra lo strapotere in Rai delle agenzie esterne e delle società di produzione a scapito delle risorse interne.

La ricerca citata inizialmente mette in risalto anche che il canone non si riversa tutto sulla Rai, come accade negli altri paesi europei, ma solo per l’83%, mentre la quota rimanente defluisce nelle casse dello Stato. Il mancato introito per la Rai ammonta a 340 milioni, circa la metà dei ricavi pubblicitari. Se si volesse rendere la Rai meno dipendente dalla pubblicità, la soluzione come si vede sarebbe a portata di mano.

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