Cecilia Mangini, un’altra bella persona del cinema, se n’è andata. La prima cosa che dovremmo ricordare di lei, tutti noi che amiamo il cinema e, del cinema, la sua capacità di scavare la verità, sono le rughe. Le mille e mille rughe che solcavano il suo volto rendendolo unico e autentico, profondo e vissuto, senza trucchi.

Si narra che Anna Magnani dicesse al suo truccatore: “Non togliermi le mie rughe, ci ho messo una vita a farmele!”. Per Cecilia Mangini le rughe che si erano accumulate nella sua lunga e bellissima vecchiaia erano il paesaggio dell’anima e il riflesso di un’etica. Un modo di sintetizzare una vita guidata dal tentativo di rapportarsi al mondo per disvelarlo, denudarlo, raccontarlo nelle sue pieghe recondite: il fascismo e la sua capacità seduttiva (suo – e di Lino Del Fra e Lino Miccichè – fu All’armi, siam fascisti!, nel 1962), l’Italia del sud, rituale e antica, che scompariva nel dopoguerra, le contraddizioni delle grandi città, viste con occhio pasoliniano: muri slabbrati come ferite che lasciavano intravedere l’avanzare delle ciminiere nella Milano degli anni Cinquanta, sottoproletari romani che vivevano in un’altra Roma, non certo la capitale monumentale.

Non furono casuali gli incontri che fece, primo fra tutti quello con il marito Lino Del Fra, altro grande occhio del cinema documentario. E poi quelli con Pasolini e con l’Ernesto De Martino di Morte e pianto rituale. “Sono stata salvata dal cinema”, diceva Cecilia. Perché il cinema era stato il linguaggio che le aveva dato un ritmo e un destino, aprendola all’Italia in cambiamento degli anni Cinquanta-Sessanta con uno sguardo modulato dalle grandi lezioni dei maestri del passato, dai sovietici a Vigo e Renoir. Grazie al cinema Cecilia era stata in piedi nell’Italia censoria democristiana, un’Italia in cui non si potevano mostrare “i panni sporchi”.

E questa dirittura l’aveva accompagnata lungo tutta la vita, per esempio nel sostegno alle battaglie sulla condizione femminile alla quale nel 1965 aveva dedicato Essere donne. Voglio ricordare Cecilia Mangini con un piccolo elemento personale, che credo restituisca in poche righe ciò che lei è stata e continuerà ad essere come esempio morale per i ragazzi di oggi. In una lettera che mi aveva scritto qualche anno fa trovo la luce dell’intelligenza e dell’umanità che sempre emanava da lei. Scriveva allora Cecilia:

Caro Augusto,

condividi, la scritta che appare sotto l’annuncio delle notizie su Corriere della Sera e Repubblica on line è, a quanto mi sembra, un imperativo. L’imperativo si insinua quasi subliminalmente dopo accadimenti come “La Siria abbatte un caccia turco”, CONDIVIDI – “Egitto, folla radunata in piazza Tahiriri. Militari ‘Pugno duro su disordini'”, CONDIVIDI – “Foto osé di Ruby e Berlusconi insieme”, CONDIVIDI – “Corona: benedico Belen e Stefano”, CONDIVIDI – “Berlusconi: io leader moderati”, CONDIVIDI – “La pallina da golf nell’auto in corsa”, CONDIVIDI. In forza di questo corso accelerato di condivisione, saremo tutti promossi yesmen e yeswomen al cento per cento e senza accorgercene condivideremo tutto, appiattiti sul Kadavergehorsam di cui CONDIVIDI è il cavalier servente.

Sbaglio ad aver paura?
Un caro abbraccio,
Cecilia

Cecilia sapeva condividere molto con le persone, ma non voleva essere sottoposta alle condivisioni eterodirette. Credo che non ci sia miglior modo per ricordare il suo sorriso così intrigante e il suo spirito così lucido e indomito.

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