L’Italia non sarà mai un Paese emancipato. Lo si capisce – semmai qualcuno avesse ancora qualche dubbio – dalle polemiche seguite al video della canzone di Gianna Nannini “L’aria sta finendo”, disegnato da Michele Bernardi per la regia di Luca Lumaca.

Il video, è oramai cosa abbastanza nota, raffigura tra le altre cose dei poliziotti con la faccia da maiale, sia mentre marciano in tenuta antisommossa che mentre pestano una persona di colore. Così, tra scene emblematiche della deriva del mondo di oggi, selfie con il vulcano in eruzione, scempi climatici, solitudini telefoniche e bottiglie di plastica nel piatto, cantati con il riferimento quanto mai attuale dell’asfissia (che in questo caso arriva a soffocare persino il pensiero), la rocker senese è stata messa sotto accusa: con una lettera accorata di tre figlie di un poliziotto e con le proteste dei sindacati di polizia che chiedono le scuse della Nannini.

Queste le parole del regista Lumaca, pubblicate su Facebook dalla Nannini: “Il video da me creato per ‘L’aria sta finendo’ di Gianna Nannini non istiga la violenza ma semmai la condanna. Come condanna lo spreco delle risorse naturali e l’inquinamento o la mercificazione del corpo femminile o l’ingerenza dei mass media nell’opinione pubblica o semplicemente la guerra. Andrebbe visto per intero e non giudicato da un fotogramma”.

Personalmente mi sembrava fosse evidente, tanto che anche la stessa Nannini, a Domenica In, si è detta meravigliata che il video, uscito un mese e mezzo fa, “abbia creato adesso questo putiferio”. Insomma, la vicenda è nota e anche qui su Il Fatto Quotidiano se n’è ampiamente parlato. Si dovrebbe però andare oltre, ma spesso è esercizio difficilissimo da fare, ed è anche poco produttivo, visto il mondo di oggi, il che non fa altro che dar ragione alla canzone incriminata. Comunque vediamo.

La canzone, proprio come oggetto artistico in sé, si abbevera dell’immaginario collettivo, soprattutto il genere pop-rock praticato da decenni – con grande successo – da Gianna Nannini. Il ginocchio sul corpo di George Floyd è un’immagine che oramai supera i suoi confini plastici reali, per entrare in una grammatica dell’icona, si fa simbolo che ha al suo interno una storia e un messaggio condiviso. Come già ampiamente detto dalla cantautrice, inoltre, l’uso della faccia da maiale per le forze dell’ordine è qualcosa di consolidato, nella letteratura, nel cinema e nei media, tanto da poter a ragione essere considerata una precisa convenzione linguistica. Tramite Orwell (La fattoria degli animali), Kubrick (Arancia meccanica) o Groening (I Simpson), Bernardi ha usato quelle facce e quei riferimenti scenici non come messaggio ma – appunto – come linguaggio condiviso: come un pronome, come un aggettivo non fraintendibile, sfruttando la forza d’impatto del video.

Così come succede per la trap – per esempio quando ci si chiede se certi brani trap possano essere usati a scuola per far lezione – l’arte-canzone si presta perfettamente per riflettere sull’oggi: richiede però larghe dosi di spirito critico e, sotto questo punto di vista, può essere un ottimo esercizio per abituarci alla buona pratica del pensiero divergente; si sviluppa in pochi minuti e in quei pochi minuti ti dà un colpo allo stomaco che non ti lascia indifferente, quando è fatta bene. Ma non è un saggio di sociologia applicata, bensì un’opera d’arte che trasfigura la realtà e comunica in maniera dialettica con le espressioni artistiche del passato, provando a decrittare il tempo dell’uomo.

Tuttavia il caso de “L’aria sta finendo” ci fa capire che bisogna fare ancora tanta strada. Sia chiaro, non voglio commentare la lettera delle tre figlie del poliziotto, che si sono sentite chiamate in causa: è una reazione personale e legittima; a Sara, Rachele e Alessia va tutta la mia comprensione. Un sindacato di polizia però e, più in generale, dei rappresentanti di parti sociali secondo cui la Nannini dovrebbe chiedere scusa è bene che riflettano meglio prima di intervenire. Si rischia l’asfissia moralistica, il soffocamento nei confronti del più limpido e sacrosanto diritto d’espressione altrui – fra l’atro manifestato con codici linguistici e riferimenti culturali arcinoti del ventesimo secolo –, che solo in Italia o in chissà quale dittatura e chissà dove poteva capitare.

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