Cultura

Perdere la testa per la lirica, dove la realtà diventa “più reale”. Perché l’opera è il luogo ideale dopo i lockdown (anche per chi non la conosce)

"Pazzo per l'opera" è il nuovo libro di Alberto Mattioli, irrinunciabile punto di riferimento per il melodramma del passato, del presente e soprattutto del futuro. Istruzioni "per l'abuso" per chi sa tutto e per chi sa poco di questo mondo per provare ad orientarsi tra tradizione e tradimento e per scoprire perché quella sul palco diventa una "realtà aumentata", perché questo teatro cantato è ritualità e comunità. E perché dopo questo anno sul divano una passione che diventa una "versione laica del pellegrinaggio" è una grossa parte che ci manca

di Diego Pretini

Servirebbe la Marcia dell’Aida per portare in trionfo le iniezioni salvifiche per la vita di ciascuno e la vita di tutti. Volesse il cielo che il ritmo fosse quello scandito dal Catalogo del Don Giovanni, ma in Ispagna son già millettré. Più probabilmente il commissario omnibus Domenico Arcuri avrebbe il phisyque per chiedere (per se stesso) Largo al factotum, pronto a far tutto, la notte e il giorno, sempre d’intorno in giro sta. Di sicuro, infine, tutti guardano all’anno appena venuto come Cio Cio San scruta l’orizzonte da cui spera di vedere levarsi l’agognato fil di fumo, tutto questo avverrà, te lo prometto, tienti la tua paura, io con sicura fede lo aspetto, con la differenza che sarebbe cosa gradita non fare la fine della Madama Butterfly, cioè – se è lecito il profano – quella dei pifferi di montagna. Questo giochino così, mal fatto e senza alcuna accuratezza filologica, è solo per ricordare a chi lo sa e comunicare a chi non lo sa che l’anno della rinascita e della ripartenza (grattatina) potrebbe essere l’occasione per (ri)darsi appuntamento in un posto in cui godere della realtà aumentata e senza neppure ipertecnologie. Per questo e per altri motivi c’è proprio chi ne va matto: Pazzo per l’opera (Garzanti, 216 pagg., 16 euro) è il nuovo libro di Alberto Mattioli, sherpa irrinunciabile quando si tratta dell’invenzione italiana del recitar cantando. Per dirne una che molti sanno già, Mattioli mette a verbale tutte le opere che vede dal vivo da quando ebbe la folgorazione, a 15 anni: nel frattempo ne sono passati altri 35 e siamo intorno a 1800 recite. Autore di libri sull’opera e di libretti d’opera, Mattioli dà ogni giorno indicazioni su tutto il bene e tutto il male del mondo della lirica con tutti i media che ha a disposizione, il più autorevole dei quali è La Stampa. “E’ un libro sulla passione per l’opera – scrive Mattioli nella sua Ouverture – che cerca di spiegare ciò che è razionalmente inspiegabile, cioè perché questa curiosa commistione di teatro e musica produca degli effetti così assurdamente devastanti sul nostro cervello”.

Lirica: il mondo visto in 4D
Uno dei motivi è che con la lirica spesso “la fiction teatrale diventa molto più reale della realtà ‘vera’” scrive Mattioli. Uno scarto non sul cosa, ma sul come è percepita la realtà. Con la “simbiosi tra quello che sentiamo e quello che vediamo”, come accade a teatro, “torniamo a vedere le cose nella giusta prospettiva, a porre le vere domande, a cercare risposte”. Tra quattro finali che nel libro Mattioli propone come esperienze personali ma che stanno al centro del discorso del suo nuovo libro ce n’è per esempio uno che riguarda la Passione secondo Matteo di Bach, alla quale il giornalista assistette a Lucerna, regia del visionario statunitense Peter Sellars. Alla fine buona parte del pubblico cedette alle lacrime. Eppure, osserva Mattioli, erano i giorni tragici in cui rimbalzavano su giornali e tv le immagini dei fanatici dell’Isis che sgozzavano i loro ostaggi, c’era lo stesso orrore tutti i giorni a tutte le ore. E però, ecco, il punto “non è cosa ci viene raccontato, perché fra quello che fanno al Cristo di Bach o ai poveri cristi che vediamo in tivù non c’è poi molta differenza. La differenza è come ci viene raccontato, la possibilità di fermarsi, pensare, metabolizzare”. La lirica come moltiplicatrice dei sensi, come medium spirituale.

C’è grossa crisi (in Italia): ecco perché
Non farne invece una medium spiritica è l’altro punto centrale di Pazzo per l’opera. Nel senso che l’opera è un po’ in crisi, sì, in Italia (a differenza di ciò che accade all’estero dove viene visto come un “segnale di modernità” e “un progresso culturale”) non tanto per colpa della scuola o della tv, visto che ormai si trova una qualsiasi recita a un colpo di clic. Piuttosto “se la gente non va all’opera, il problema è di chi l’opera la fa. E non riesce a leggerla, dunque nemmeno a proporla, come una delle tante espressioni della contemporaneità, magari contraddittoria, forse elitaria, perfino difficile, ma un’arte del nostro tempo che parla al nostro tempo”. E’ come, scrive Mattioli, “se ogni mese si mandasse un inviato a Firenze a raccontare come sono gli Uffizi: belli sì, ma sempre quelli”. E’ tempo di fare “spazio a un nuovo repertorio”, anche con opere contemporanee, a “un nuovo modo diverso, nuovo, coraggioso, problematico di presentare al pubblico quel che il pubblico crede, spesso a torto, di conoscere”. Tanto per fare nomi e cognomi: “Soprattutto alla regia è demandato scavare nei testi, scoprire questi nessi e svelare perché Monteverdi o Verdi, Händel o Puccini non sono un rifugio consolatorio di rassicuranti certezze o comode commozioni, ma parlano di noi, qui, adesso, oggi. Sono il presente, destabilizzante, difficile, contraddittorio, non un passato mitico, meraviglioso, ma fatalmente finito”.

Alla ricerca del modo giusto di fare opera? Tempo perso
Ai matti bisogna dare ascolto come ci viene detto da un po’, da Shakespeare a Battisti nel senso di Lucio. Dare ascolto a Mattioli viene più facile: la sua capacità spiccata è tradurre per gli occhi di oggi opere scritte da cento, duecento, trecento anni fa, e scusate se è poco. Una dote che la monomania ormai annosa non può spiegare da sola: Pazzo per l’opera è destinato a chi sa già tutto e magari si inquieterà per qualche opinione su questo o quel direttore, su questo o quel tenore. Ma – come già i libri precedenti – ha soprattutto la virtù di seminare per chi sa un po’ meno e un po’ poco su Callas, Pavarotti, Rossini o magari il sempiterno dibattito sulle regie: quelle zeffirelliane senza sconti (cioè senza mai la tentazione di spendere un nichelino in meno), quelle sempre uguali (alla Staatsoper di Vienna si dà ancora una Tosca con allestimento del 1958), quelle coi tableaux vivants e quelle che riaffidano all’opera il ruolo che può avere negli anni Venti del Duemila. E questa è la visione del mondo di Mattioli: “Non esiste il modo ‘giusto’ in assoluto di mettere in scena (o cantare, o dirigere) Mozart o Rossini, Verdi o Wagner, nemmeno la loro volontà, espressa o più probabilmente presunta. Esiste il modo ‘giusto’ che un periodo storico ha di mettere in scena i capolavori che ha ricevuto. Poiché noi leggiamo il passato per cercarci il presente, altrimenti siamo al museo, non a teatro, è fatale che ogni epoca rilegga le precedenti alla luce della sua sensibilità”. Mattioli ricorda, con abbondanza di ironia che non gli fa difetto ed è il balsamo per finire il libro in mezza giornata, lo scandalo alla Scala quando nel 1955 Maria Callas (Violetta) alla fine del primo atto della Traviata si tolse le scarpe, come fa chiunque a casa quando ha fatto uscire l’ultimo ospite. Sessant’anni dopo la stessa reazione fu provocata da un Alfredo che gettò nell’angoscia il pubblico in sala. Strangolava un bimbo in culla? Dava fuoco a un canile? Picchiava una vecchia? No, venne percepito come una specie di offesa alla morale pubblica che il povero Alfredo (che già aveva i suoi problemi) stesse tagliando delle zucchine in cucina. Entrambi fenomeni – quelli davanti alle estremità nude e agli ortaggi – da ricondurre a psicosi collettive che potrebbero essere materiale per Quark, come si capisce.

Rigoletto – O se la tradizione diventa tradimento
E dunque la vexata quaestio da puntata di Ciao Darwin: regie “moderne” contro regie “tradizionali”, cioè “come la voleva Verdi”, motto con cui Mattioli prende per i fondelli chi vorrebbe il Rigoletto sempre uguale non si sa a cosa. Basti questa obiezione del Pazzo: “Chi, senza essere sommerso di pernacchie o sottoposto a un tso d’urgenza, direbbe che La vocazione di San Matteo di Caravaggio sia sbagliata o brutta o ‘provocatoria’ perché gli amici dell’evangelista attovagliati con lui all’osteria indossano farsetti e cappelli piumati, cosa che gli ebrei del Nuovo Testamento certamente non facevano?”. Rigoletto è un buffone alla corte del duca di Mantova, è gobbo e deforme, il suo datore di lavoro ha una vita dissoluta per non dire che è dedito ad abusi, violenze, depravazioni quotidiane. E il giullare è complice finché non tocca a lui, finché il duca non gli rapisce la figlia in concorso con gli altri cortigiani, vil razza dannata, come vediamo anche oggigiorno. E così cerca di risolverla in combutta con un sicario e una prostituta. Come generalmente accade all’opera, la risolve malissimo. Per tutti questi motivi quando Rigoletto arrivò a teatro, taglia corto Mattioli, aveva l’effetto di “destabilizzare” grazie alla “commissione dei generi, l’alto e il basso, la tragedia e la commedia insieme, la trivialità delle situazioni e oggetti nel decoro di un’opera seria”. Insomma: “Le regie ‘tradizionali’ di Rigoletto oggi sono ‘fedeli’ alle didascalie del libretto, ma per nulla a Verdi. Mai come in questo caso la tradizione è tradimento. L’unico modo di essere davvero ‘fedeli’ a Verdi è ridare alla sua opera la sua potenzialità scandalosa e destabilizzante”.

Festival, sei tu la mia felicità: la mia notte magica
Mentre comincia l’anno della ricostruzione (corna) Pazzo per l’opera ci fa l’effetto di percepire in 3D cos’è che ci rompe di dover stare ancora chiusi in salotto, pur circondati da musiche e recite di ogni tipo e di ogni livello, dentro e fuori dalla lirica. Il racconto personale di Mattioli sui festival lirici tocca – inconsapevolmente o forse no – la pelle viva della nostalgia di un ritorno alla normalità, alle piazze italiane, alle tavole ben apparecchiate, alle notti stellate. L’Arena di Verona nazionalpopolare con i suoi gradoni infuocati, con la sua piazza, quell’altra arena di Macerata, lo Sferisterio con il festival totalizzante che trasforma la lirica in questione davvero popolare, “di tutti”; il Rof di Pesaro che – dice Mattioli – ha riscoperto “Rossini quello vero” ma ora non deve fare l’errore di “rimanere troppo se stesso” e “tornare a essere il luogo della sperimentazione”; il Festival della Val d’Itria di Martina Franca con i titoli imperdibili perché rarissimi. La malinconia aumenta di una tacca quando Mattioli porta con sé i lettori ai festival fuori confine: a Salisburgo, la città di Amadeus; a Glyndebourne, vicino a Brighton, dove la lirica è quasi un pretesto o l’occasione per un picnic alla Agatha Christie (senza il morto avvelenato, di solito); e infine Bayreuth, nell’alta Baviera, dov’è “custodito” Wagner. Più della musica, più dei cantanti, più delle regie: questa “versione laica del pellegrinaggio”, come la definisce Mattioli, è un pezzo di midollo osseo del teatro. In un tempo in cui tv, dvd e streaming non lasciano mai in crisi d’astinenza, dal divano di casa è acuita la sensazione (il dolore) che “il teatro è ritualità, celebrazione, comunità”. E non si conclude con le assi di legno della ribalta ma si completa con quello che c’è fuori. Una bella città, una buona cena, il post-partita, il tempo che va più lento, i frizzi, i lazzi, din din din, bum bum bum, per dirla alla Rossini: proprio per esagerare è abbastanza il senso della vita, quello che ci manca da quasi un anno intero.

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