Leggere Letizia Dimartino, siciliana, classe 1953, mi restituisce sempre – immutata – la rivelazione di questa nuova Sicilia riferita eppure sempiterna e che solo lei, lei e nessun’altra, è in grado di raccontare. Una Sicilia che diventa il racconto di un Paese, una narrazione che solca i decenni, attraversa la metà del secolo scorso. C’è un sottile piacere nel leggere questa donna siciliana, di Ragusa, talento adamantino, tra le maggiori scrittrici che abbiamo, a mio modesto parere, e tuttavia ancora inesplorata. La conferma di quanto dico è vergato in ogni suo libro, dalle raccolte poetiche (molto amate da Maurizio Cucchi) ai romanzi.

Il romanzo appena uscito per Archilibri, “Tutta la mia città”, la copertina è del favoloso artista Velasco Vitali, dunque ricalca l’autenticità del suo valore. Letizia racconta una città, Ragusa, ed è subito incanto; lo splendore della vallata, il cielo oscillante degli Iblei: diventano lo strumento di un rimando a un tempo trascorso, che ascoltiamo persino oltre che vedere, come fosse uno di quei preziosi documentari dell’Istituto Luce, dotto e insieme estatico, a certificare una esistenza lontana e amena, tangibile e non liquida, determinante nella storia e non fluttuante e priva di categoria, come quella in cui stiamo vivendo.

Estatico è l’aggettivo che mi viene in mente pensando alla prosa di Letizia, la conosco meglio delle sue poesie. Lei in fondo non fa che raccontare, usando i social spesso come ponte, l’attraversamento verso gli altri, i lettori, in un vero e proprio esercizio di stile, che si affina, diventa esigente, a ogni status pubblicato. Da quegli status vengono fuori libri. Sono già romanzi. Micro romanzi, occorre solo assemblarli e sono già lì.

“(…) Gli Iblei cambiavano colore nelle ore, celesti e poi blu e poi verde scuro e neri con i paesi a brillare. Lui andava alle latomie, seguito da molti cani che lo riconoscevano. Pregava, le braccia dietro le spalle con le dita intrecciate, il passo che si faceva lento e calmo, gli occhi puntati verso il cielo. Giungeva dove la strada si faceva stretta e saliva verso la via Marsala, vicino all’istituto scolastico. E poi raggiungeva la chiesa delle suore ntuppatieddi. Era vuota e fresca (…)”.

C’è qualcosa di curativo, come certe erbe, nella scrittura di Letizia. Mi inonda la calma, la mestizia greve di una chiesa rimpalla dalla pagina in cui Letizia mi dispiega navate e chiaroscuri; la scrittura colta, aperta, meditativa. Nel romanzo c’è finalmente conclamata o in filigrana l’identità onesta di una terra difficile ma di accecante bellezza, la Sicilia. Assurgerà a simbolo di molte contraddizioni, ma questo è inevitabile, è nella sostanza stessa di un romanzo strutturato su più registri.

Estrapolo diamanti, di pagina in pagina. “(…) Quello che c’è dietro i vetri è inverno vero. Da mesi. Bufere che si alternano a giorni di celestitudine. Mandorli che sarebbero già fioriti, odori nuovi, la vallata battuta dal vento nei suoi alberi verde sottobosco. Grandine che scivola, e il freddo delle stanze (…)”. E così via. Dovrebbe essere riconosciuto questo talento, l’ho scritto altre volte. È davvero un’omissione tenere per pochi le opere di una tale raffinata autrice. Autrice che peraltro paga il prezzo – se vogliamo – di una elezione con un male degenerativo che la costringe all’immobilità. Il miracolo comincia proprio da questa immobilità, da cui affiorano terre immaginifiche, splendori neonati, che nutre e vivifica lo sguardo immacolato di Letizia. Vi invito a leggerla.

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