Lo scorso 4 dicembre è uscito un nuovo disco di inediti di Claudio Baglioni, intitolato In questa storia che è la mia. Quella che segue non è una recensione. Questo disco coinvolge almeno quarant’anni di carriera: non è il caso di contenerlo in una recensione. Proverò invece a raccogliere i fili sparsi nel tempo, perché molti di essi s’intrecciano perfettamente nella trama e nell’ordito di quest’album. Vediamo di cercare di ricostruirne l’avventura fino a Capostoria, la prima traccia di quest’ultima fatica.

Sono un baglioniano della prima ora. Aspettavo questo disco da tempo ma al primo ascolto mi sono rammaricato per la totale assenza del mondo esterno, della strada, dei bar, della quotidianità. Poi ho capito che non poteva essere che così, anche perché – per ammissione dello stesso Baglioni – la sua vita degli ultimi anni è stata molto ritirata. Io credo che il cantautore romano volesse in qualche modo far pace con le canzoni d’amore. Scrivere d’amore, certo, ma dentro una storia più ampia che avesse il respiro di un concept: a metà tra la verticalità degli anni Novanta e l’orizzontalità degli anni Ottanta. Mica facile. Nella presentazione alla stampa, d’altra parte, Claudio ha affermato che questo disco è figlio di suoi due precedenti lavori: Strada facendo (1981) e Oltre (1990). Vediamo in che modo ciò avviene.

In questa storia che è la mia è un disco “di interni”. È un concept-album che racconta una parabola amorosa; alla storia però come detto manca il mondo di fuori. A mio avviso, dunque, più che nascere da Strada facendo o La vita è adesso (1985) – due dischi, orizzontali, empatici, in cui il mondo è molto presente –, semmai a essi punta ad arrivare, cercando di riproporne la freschezza creativa di scrittura. E questa è l’orizzontalità, l’empatia, la spontaneità.

Subito dopo quei due dischi ci sono stati almeno due momenti fondamentali nella vita artistica e personale di Baglioni: le contestazioni al concerto di Amnesty International a Torino, nel 1988; la separazione dalla moglie Paola, punto di riferimento artistico, oltre che di vita. Sono “traumi” che rappresentano molte cose nella poetica di Baglioni.

Torino è l’emblema dell’idiota ostracismo dal gotha della canzone d’autore, di cui ho parlato già qui, inutile tornarci su. Paola rappresenta le canzoni d’amore: tutte le canzoni d’amore di Baglioni parlano di lei, è inevitabile. E non importa che siano davvero dedicate a lei o da lei ispirate. È qualcosa di più grande e che il cantautore non sceglie; non è nemmeno una faccenda romantica: è così. Lei è la maglietta fina, la sua Beatrice, la sua Laura; senza di lei Claudio dev’essere rimasto solo per davvero. I dischi degli anni Novanta sono Oltre, Io sono qui e Viaggiatore sulla coda del tempo. Sono dischi di ricerca, sofferti, complessi. E questa è la verticalità, la ricerca.

Dopo ricerche cosmogoniche, viaggi che ognuno fa solo con sé e viaggiatori fermi dentro a un hangar, i primi due dischi del terzo millennio (Sono io del 2003 e Con voi del 2013) acuivano quella solitudine, al di là del romanticume, cercando compiacimento formale senza tener conto della propria storia; risultavano, così, privi di ispirazione. Lo dissi qui, e ne sono ancora convinto. Sono dischi senza il loro autore dentro. È come se, oggi, In questa storia che è la mia rendesse tetragona quella trilogia, riuscendo ad amalgamare a ritroso la profondità di Oltre e la naturalezza di Strada facendo. È un album tramite il quale Baglioni fa pace con il passato.

Quest’album del 2020 avrebbe dovuto chiamarsi “Duello”. Chissà da chi o da cosa Baglioni sia stato dissuaso. L’idea di lotta amorosa vien fuori anche da molte sue descrizioni di amplessi raccontati in canzoni passate, sarebbe stato un bel titolo. Forse, però, oggi più che lottare è il momento di far pace con un’idea di sé; acquietarsi dopo decenni di “brividi avvoltoi” del male oscuro del sé. Si torna a cantare d’amore, alla faccia di critici “distratti” o incompetenti, e lo si fa con profondità. In questo senso, quest’album è una rivendicazione di stile e poetica: il piccolo grande amore, oggi, è così, nel rituale del “giorno per giorno e a sera in tavola il pane e il vino come a messa”.

Serve, questo disco, per far pace con le illusioni del suo mestiere, con la resa “espatriati quando dal palco si scende giù”, “perché il futuro era allora e quella vita l’ho avuta già”. Serve, In questa storia che è la mia, per tornare a chiamare le cose con il loro nome; è un approdo che recupera la forza di approfondimento e la capacità comunicativa dalla sua stessa storia personale e artistica, dopo aver scovato e attraversato il dolore e la vanità. Dopo questo immane sforzo, si può iniziare con la prima nota di Capostoria.

p.s. Ripeto: non è questo il posto adatto per le recensioni delle canzoni di questo disco. Rimando a questa pagina chi volesse approfondire la ritrovata freschezza di scrittura di Baglioni.

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