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Libano, la legge sulla tortura non funziona

Libano, la legge sulla tortura non funziona
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Nell’ottobre del 2017 il parlamento libanese approvò una legge sul reato di tortura. A oltre tre anni di distanza, si può concludere che quella norma semplicemente non funziona.

A questa conclusione è giunta Amnesty International dopo aver esaminato gli esiti di 32 denunce di tortura. L’ostacolo che si frappone alla richiesta di giustizia è sempre lo stesso: le indagini vengono affidate agli stessi corpi dello stato autori delle torture.

Il caso più noto, nonché il primo dall’entrata in vigore della legge, è quello dell’attore Ziad Itani. Seguiamo passo passo la sua storia, fino alla beffa finale.

Itani viene arrestato il 23 novembre 2017 per la falsa accusa di aver spiato in favore di Israele. Quando per la prima volta compare di fronte a un magistrato militare, descrive nei minimi dettagli le torture subite: percosso con cavi elettrici, preso a pugni e calci in faccia, minacciato di stupro, tenuto legato con una catena di metallo in una posizione dolorosa, appeso ore e ore per i polsi. Il 13 marzo 2018, dopo quasi quattro mesi, tre dei quali trascorsi in isolamento, viene dichiarato innocente e scarcerato.

Il 20 novembre 2018 Itani sporge denuncia. La procura civile trasferisce il caso a quella militare, in violazione delle norme internazionali e della stessa legge contro la tortura, che attribuisce i poteri d’indagine solo alla magistratura civile.

Dopo una campagna internazionale delle organizzazioni per i diritti umani, il 12 aprile 2019 il caso torna alla procura civile. Itani viene ascoltato e, su richiesta, produce i certificati medici che attestano le torture subite. Poi, non succede più nulla. O quasi. Il 14 agosto 2020 il presidente libanese Michael Aoun promuove uno dei funzionari che Itani ha denunciato per tortura. Itani presenta un esposto al Consiglio della shura, il più alto organo della giustizia amministrativa.

Esattamente un mese dopo il capo della Direzione per la sicurezza dello stato presenta una denuncia per diffamazione e calunnia contro Itani, accusandolo di aver danneggiato il prestigio dello stato, aver minacciato pubblici ufficiali, ingannato il potere giudiziario e rilasciato dichiarazioni false.

Lascio la conclusione allo stesso Itani: “Dieci giorni dopo l’esplosione al porto di Beirut, mentre stavo ancora raccogliendo le macerie del mio appartamento andato a pezzi e curando le ferite, il presidente ha promosso il mio torturatore. Poi, il torturatore e il suo capo mi hanno denunciato. Quando fui rimesso in libertà, giurai che avrei combattuto per i miei diritti. Ma non avrei mai immaginato di trovarmi contro lo stato intero, i giudici, gli apparati di sicurezza, i media…!”.

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