Sono passati due giorni da quando Ungheria e Polonia hanno deciso di mettere il veto sul prossimo bilancio europeo, al quale è collegato anche lo stanziamento dei fondi del Next Generation Eu (o Recovery Fund) in sostegno ai Paesi colpiti dal coronavirus, inclusa l’Italia, a causa della clausola sullo Stato di diritto. Due giorni durante i quali i rivali politici hanno chiesto a Matteo Salvini e Giorgia Meloni di prendere le distanze da quelli che non hanno mai nascosto essere due governi alleati a livello europeo. Così, a 48 ore dalla notizia, la leader di Fratelli d’Italia ha affidato ai social la sua risposta, ben lontana dall’essere una presa di distanza: “Se non vi inginocchiate niente soldi per combattere il coronavirus, basta difesa dei confini e identità cristiana“, ha scritto ricalcando le tesi di Viktor Orbán. Secondo Meloni, la mossa dei governi di Budapest e Varsavia rappresenta quindi la scelta di “non piegarsi” a un Ue che vuol punire “quei Paesi che vogliono difendere le radici classiche e cristiane d’Europa e i propri confini dall’immigrazione illegale di massa“. Ma le radici cristiane e le politiche migratorie hanno poco a che vedere con la clausola richiesta dalla maggior parte dei 27 Stati membri. Lo dice la cronaca degli ultimi anni che racconta il continuo scontro tra i governi sovranisti polacco, guidato dal partito Diritto e Giustizia dal 2015, e ungherese, da dieci anni sotto la guida del Fidesz di Viktor Orbán.

Polonia, controllo sui giudici e mancata separazione dei poteri
Bruxelles ha più volte attivato l’articolo 7 dei Trattati sull’Unione europea che può portare fino alla sospensione di alcuni diritti di adesione, tra cui il diritto di voto in sede di Consiglio Ue, in caso di “violazione grave e persistente da parte di un Paese membro dei principi sui quali poggia l’Unione”. Ma a far scattare l’allarme delle istituzioni europee non è stata “la difesa dell’identità cristiana o dei confini”, bensì le controverse riforme della giustizia proposte dall’esecutivo di Varsavia che limitano la libertà dei giudici e la loro indipendenza dal governo.

La prima è datata luglio 2017, quando alla guida dell’esecutivo c’era il presidente del Consiglio Beata Szydło, e permette al ministro della Giustizia di nominare i presidenti dei tribunali regionali e di appello. La firma del presidente della Repubblica, Andrzej Duda, arrivò mentre migliaia di persone erano in piazza per protestare contro una riforma che di fatto rendeva i togati dipendenti dai governi che li nominavano, accorpando il potere esecutivo e buona parte di quello giudiziario nelle mani del partito o della coalizione di maggioranza. L’unico veto posto dal presidente è stato quello sulle “misure sulla Corte suprema (che avrebbero consentito all’esecutivo di nominare 15 dei 25 giudici, ndr) e sul Consiglio nazionale della magistratura. Così, a dicembre, la Commissione europea allora guidata da Jean-Claude Juncker, ha deferito la Polonia alla Corte di Giustizia dell’Ue e attivato l’articolo 7 del Trattato. È stato il primo caso nella storia dell’Unione.

Ma la stessa situazione si è ripresentata due anni dopo, con il governo sempre di marca Diritto e Giustizia ma guidato dall’attuale premier, Mateusz Morawiecki. A gennaio 2020, il Parlamento, sempre con centinaia di persone in piazza, ha approvato quella che è stata subito ribattezzata “legge museruola” con la quale l’esecutivo si è dato la possibilità di sanzionare quei giudici che mettono in dubbio la legittimità della nomina di altri colleghi, che svolgono “attività a carattere politico” o “nuocciono al funzionamento del sistema di giustizia”. In questo caso, è stato il Parlamento europeo a protestare contro l’ultimo schiaffo allo Stato di diritto nel Paese, manifestando la propria contrarietà per le difficoltà nel portare a compimento le procedure previste dall’articolo 7 dei Trattati Ue, visto che per attivarlo serve l’unanimità del Consiglio. La Commissione, ad aprile, ha avviato una nuova procedura d’infrazione nei confronti del Paese proprio a causa di quest’ultima legge. Uno scontro, quello tra Polonia e istituzioni Ue, che comunque non ha niente a che vedere con la “salvaguardia dell’identità cristiana e la protezione dei confini” usate da Giorgia Meloni per giustificare la scelta di bloccare i fondi europei per l’emergenza Covid.

Ungheria, leggi-bavaglio contro i media e criminalizzazione delle ong
A far scattare le procedure, poi arenatesi in sede di Consiglio Ue, per l’attivazione dell’articolo 7 dei Trattati nei confronti dell’Ungheria è stato il voto del Parlamento Ue del 12 settembre 2018 sulla cosiddetta relazione Sargentini, dal nome dell’ex eurodeputata dei Verdi che ne è stata la relatrice. La Plenaria di Strasburgo, con 448 voti a favore, 197 contrari e 48 astensioni, approvò il rapporto in cui si accusava Budapest, come ha poi dichiarato la stessa eurodeputata, di aver “imbavagliato i media indipendenti, limitato il settore accademico, ha sostituito i giudici indipendenti con giudici più vicini al regime, ha reso la vita difficile alle ong“.

Affermazioni legate alle numerosi leggi con le quali il governo di Viktor Orbán, già dal 2010, ha tentato di limitare la libertà e l’indipendenza dei media nazionali, a quelle sui migranti che hanno convinto la Commissione Ue a deferire il Paese alla Corte di Giustizia europea e alla norma che è stata ribattezzata “legge stop-Soros”, definita proprio dai giudici dell’Ue come “discriminatoria”, con la quale l’esecutivo ha criminalizzato l’operato delle ong in materia di accoglienza e costretto la Central European University, fondata proprio dal magnate statunitense di origini ungheresi, a lasciare la storica sede di Budapest e trasferirsi a Vienna. Anche in questo caso, la “protezione dei confini” ha a che fare solo in parte con le accuse mosse dall’Ue nei confronti dell’Ungheria.

Twitter: @GianniRosini

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