La campagna elettorale più difficile e forse gravida di conseguenze della storia americana si conclude oggi: tra il diffondersi in molte aree del Paese della pandemia; con il tentativo di Donald Trump e dei repubblicani di seminare dubbi di legittimità sul voto, nel caso questo fosse per loro sfavorevole; in un diffuso clima di tensione, che si traduce in atti illegali e che alimenta paure di disordini e violenze nella notte elettorale. Questa è però stata anche la campagna più capace di sollecitare passione e interesse. A lunedì pomeriggio, a poche ore dalla giornata elettorale, 98 milioni di persone avevano già votato: per posta, attraverso l’early voting o depositando la propria scheda nelle caselle degli Uffici elettorali. Si tratta di un risultato importante, se si pensa che hanno già espresso la loro preferenza oltre il 70% di coloro che votarono nel 2016.

Donald Trump e Joe Biden nelle scorse ore hanno percorso l’America in un ultimo appello agli elettori: dalla Florida al Michigan, dalla Georgia alla Pennsylvania. Lo scontro politico si è fatto insulto e sospetto. Barack Obama, in un comizio in Florida, ha detto che Trump mente ogni singolo giorno. Trump, dalla Pennsylvania, ha ribadito che non crede alla correttezza del voto. Da osservare, stasera, alla chiusura delle urne, il risultato dei battleground states: Florida, Ohio, North Carolina, Michigan, soprattutto Pennsylvania. Ma è improbabile che il risultato si conoscerà nelle ore successive alla chiusura dei seggi. I milioni di voti arrivati per posta dovranno essere conteggiati ed è su questo che può scatenarsi lo scontro. Uno scontro anche di giorni, di settimane, sull’esito delle elezioni e su chi gestirà il potere di un Paese sempre più diviso e turbolento.

LA BATTAGLIA SUL DIRITTO DI VOTO – Ieri, lunedì, un giudice federale del Texas ha respinto la richiesta dei repubblicani di invalidare 127mila voti depositati in urne elettorali nei drive in dell’area di Houston (prevalentemente democratica). Non è un caso isolato. Il tema principale di queste elezioni riguarda proprio il diritto di voto. In molte contee e Stati il partito di Trump sta cercando di limitare il più possibile lo scrutinio delle schede espresse per posta o nell’early voting, il voto anticipato. La Corte Suprema ha accolto la richiesta dei repubblicani del Wisconsin di conteggiare i voti per posta arrivati nello Stato solo ed esclusivamente entro la sera del 3 novembre. Altrove le sentenze della Corte Suprema sono state di segno opposto. La Pennsylvania potrà tenere aperta l’accettazione dei voti per posta fino a tre giorni dal 3 novembre. In North Carolina, la scadenza è addirittura a nove giorni.

Ci sono poi diverse contee dei battleground states – in Nevada, Michigan, ancora Pennsylvania e North Carolina – dove il partito repubblicano chiede anche di potere inviare ai seggi propri osservatori, in modo da poter più facilmente controllare, e contestare, lo scrutinio dei voti per posta. La cosa è ulteriormente complicata dalle operazioni di scrutinio. Ogni Stato ha le sue regole. In Florida e North Carolina gli absentee votes, i voti in assenza, possono essere conteggiati nei giorni precedenti il 3 novembre. In altri Stati – in particolare sei: Arizona, Florida, Michigan, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin – bisognerà aspettare la chiusura delle urne. Questo fa sì che il risultato di Stati decisivi come la Pennsylvania, il Michigan e il Wisconsin potrebbe essere definitivo parecchi giorni dopo la chiusura delle urne.

In conclusione, si tratta di un labirinto di regole e strategie che rende la notte post-elettorale tutt’altro che tranquilla. Democratici e repubblicani stanno inviando frotte di avvocati in giro per l’America, in quella che potrebbe diventare una lotta all’ultimo voto: con i democratici che cercano di fissare norme di scrutinio le più garantiste possibili; con i repubblicani che vogliono invece un’interpretazione più ristretta delle regole di legalità del voto. L’epilogo probabile è uno scontro che potrebbe andare avanti per giorni, forse per settimane. Trump ha già spiegato che “non appena si chiuderanno le operazioni di voto, arriveremo noi con i nostri avvocati”. Il presidente ha fatto insomma intendere che non pensa proprio di riconoscere un esito elettorale a lui sfavorevole; e che una sua sconfitta verrà contestata a livello legale, con la possibilità che la contesa arrivi anche alla Corte Suprema, dove intanto Trump ha piazzato Amy Coney Barrett, una giudice conservatrice. Il sito di informazione Axios, nei giorni scorsi, ha anche raccontato che nell’entourage di Trump si sta facendo strada un’altra possibilità. E cioè che il presidente, all’arrivo di primi, parziali risultati a lui favorevoli dagli Stati contesi, possa dichiararsi vincitore. Di fronte a una dichiarazione pubblica di vittoria, sarebbe più difficile per i democratici richiamare il rispetto delle regole. “Il presidente non ci ruberà il risultato delle elezioni”, ha detto Biden. Sicuramente, il risultato delle elezioni potrebbe risultare incerto, combattuto, volatile per giorni e giorni.

LA PAURA DEI DISORDINI – È un Paese provato quello che arriva alle elezioni del 3 novembre. Il Covid-19 ha fatto almeno 231 mila morti. I casi sono vicini ai 10 milioni. Ma è anche un’America spaventata quella che arriva alle elezioni del 3 novembre. Una crisi economica senza precedenti ha prodotto milioni di disoccupati. In questo contesto si inquadra uno scontro elettorale sempre più teso. La polarizzazione di questi anni ha fatto di democratici e repubblicani non più dei rivali politici, ma dei nemici. Gli episodi di tensione in questi giorni si ripetono. In Texas l’Fbi ha aperto un’inchiesta su un gruppo di supporter di Trump, che ha circondato e bloccato un pullman della campagna democratica diretto da San Antonio a Austin. Il presidente li ha chiamati “patrioti, che non facevano nulla di male”. In New Jersey e nello Stato di New York ancora sostenitori di Trump hanno bloccato il traffico sulle autostrade. E in Georgia i democratici hanno deciso di organizzare un comizio online perché preoccupati per la presenza, in zona, di milizie dell’estrema destra, richiamate da un comizio del presidente.

A proposito di milizie lo stesso Trump, nel primo dibattito televisivo con Biden, ha chiamato a raccolta la sua “gente, perché entri ai seggi e controlli le operazioni molto attentamente”. Le milizie di estrema destra sono del resto diventate una presenza costante in molte occasioni pubbliche. 13 militanti di destra sono stati arrestati dall’FBI alcune settimane fa: preparavano il rapimento della governatrice del Michigan Gretchen Whitmer. I timori che la notte successiva al voto si scatenino incidenti, proteste sono quindi diffusi. I vari Dipartimenti di Polizia si preparano a episodi di guerriglia urbana. Preoccupati dagli incidenti, negozi e centri commerciali piazzano assi di legno all’esterno, per proteggere le vetrine. Alcuni organizzano anche delle simulazioni di situazioni di emergenza. Non è ovviamente la guerra civile. Ma un’elezione in cui una parte non riconosce la legittimità dell’altra, e in cui è possibile che il risultato elettorale non sia accettato, può suscitare tensioni e strappi violenti.

I SONDAGGI – Tra le memorie più persistenti della notte elettorale dell’8 novembre 2016 c’è la catastrofe di sondaggi e sondaggisti, che non sarebbero stati capaci di prevedere la vittoria di Trump. A poche ore dal voto, Hillary Clinton sembrava in vantaggio in tutti i rilevamenti, compresi quelli relativi ai battleground states. A voto avvenuto, Trump ha prevalso quasi ovunque. Quel ricordo pesa su tutti i numeri e le previsioni avanzate sinora, che vedono Biden in vantaggio. E se stessero, ancora una volta, sbagliando tutto?

In realtà, l’immagine di fallimento trasmessa dalle previsioni del 2016 è stata in seguito, almeno in parte, rivista. Le previsioni sul vantaggio a livello nazionale di Clinton furono piuttosto accurate, tanto è vero che la candidata democratica prese due milioni e ottocentomila mila voti in più di Trump. In altri Stati, la vittoria a sorpresa di Trump restò all’interno del margine di errore che ogni sondaggio implica. Il vero fallimento riguardò piuttosto Michigan e Wisconsin, dove Trump prevalse per qualche migliaio di voti e dove i numeri alla vigilia del voto si rivelarono falsati da mille problemi. Soprattutto il voto della working class bianca degli Stati del nord fu clamorosamente frainteso.

Quello scenario potrà, molto difficilmente, ripetersi. Anzitutto perché oggi a livello nazionale Biden ha un vantaggio molto più consistente di quello di Clinton. Nel 2016 la candidata democratica era data di quattro punti in vantaggio su Trump (alla fine furono 2,1). Oggi la media dei sondaggi compilata da RealClearPoliticsBiden avanti di 6,7 punti (più generosa è la media del New York Times, che fissa il vantaggio di Biden a 8,5 punti). Certe dinamiche a livello nazionale – per esempio la capacità di Biden di intercettare il voto bianco e working class meglio di Clinton – si ripercuotono a livello dei battleground states, e rendono quindi più affidabili le previsioni.

C’è poi una altro dato. Nel 2016 il numero di elettori indecisi o propensi a votare per un candidato terzo (per esempio la verde Jill Stein o il libertario Gary Johnson) era il 12,5. Oggi, altra media di RealClearPolitics, il numero di chi non sa chi voterà è molto più basso: il 4,6 per cento. Questo dovrebbe mettere Biden parzialmente al sicuro. Nelle ultime ore gran parte dei sondaggi hanno quindi confermato il maggior agio con cui Biden entra nella giornata elettorale rispetto a Clinton. Un sondaggio NBC News/Marist mostra Biden in vantaggio in Pennsylvania di 5 punti (era 9 a settembre). Buone notizie arrivano anche da Quinnipiac University, che assegna al democratico un vantaggio di 5 punti in Florida. Situazione simile, 47 per cento contro 43, in Ohio.

Ci sono, per i democratici, motivi per essere del tutto tranquilli? Non proprio. Lo shock del 2016 è stato forte e il presidente è un osso duro. Un sondaggio del Des Moines Register in Iowa mostra per esempio un drammatico spostamento degli orientamenti di voto a favore dei repubblicani. E se succedesse altrove? E se la gente che risponde ai sondaggi si vergognasse di dire di votare per Trump? C’è poi un dato, che confina con la scaramanzia. Nel 2016, il Trafalgar Group fu l’unico istituto di ricerca a predire la vittoria di Trump in alcuni Stati, per esempio il Michigan. Nel 2020, stesso scenario. Il Trafalgar Group prevede la conferma di Trump. È vero che il gruppo è di orientamento conservatore e repubblicano. Ma quanto fondamento hanno davvero le loro analisi?

LA PENNSYLVANIA – Nelle ultime settimane di campagna, la Pennsylvania è emersa come lo Stato che entrambi i candidati devono assolutamente conquistare nella road to 270, la strada che porta ai 270 voti elettorali che assicurano la vittoria. Per Trump – considerata la sua competitività in Florida, North Carolina, Georgia e in parte Arizona – la Pennsylvania diventa essenziale: se la perde è difficile che riesca a incastrare le cose in modo da tornare alla Casa Bianca. Stesso discorso per Biden. Dato per probabile che riesca a prevalere nei tre Stati del nord – Michigan, Wisconsin e Minnesota – non c’è però per lui combinazione vincente che non passi per la Pennsylvania. “Dove va la Pennsylvania, va il Paese”, ha detto il democratico. Nell’ultimo giorno di campagna, entrambi i candidati hanno viaggiato per lo Stato: Trump con un comizio ad Avoca, appena fuori Scranton; Biden facendo tappa a Pittsburg, per un comizio con Lady Gaga, per poi dirigersi verso la contea di Beaver, nel sud-ovest, dove nel 2016 migliaia di democratici votarono per Trump. Riprendere la Pennsylvania, per i democratici, avrebbe anche un valore simbolico. Trump l’ha strappata a Hillary Clinton nel 2016, grazie soprattutto al voto dei ceti popolari e rurali bianchi, dopo vent’anni di incontrastato dominio democratico. Tornare a vincere in Pennsylvania sarebbe quindi un modo per rimarginare una ferita dolorosa e dare il senso di una nuova fase politica, meno gravata dall’eredità del trumpismo.

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