Si stringe il cerchio intorno ai colossi del web. O almeno ci si prova. Secondo quanto anticipa il Financial Times l’Unione europea starebbe mettendo a punto una lista di 20 big tech a cui applicare regole particolarmente stringenti al fine di arginare il loro strapotere di mercato. Nella lista ci sarebbero anche Google, Apple, Amazon e Facebook che sarebbero tenute ad esempio a condividere dati con i concorrenti e a una maggiore trasparenza per quanto concerne le modalità di raccolta di informazioni sugli utenti. Una fonte vicina al dossier, scrive il quotidiano londinese, avrebbe spiegato che ” L’immenso potere di mercato di questi soggetti non è una buona cosa per la concorrenza”. “Le piattaforme dei colossi web sono invasive, le società pagano poche tasse e distruggono la concorrenza”, spiega un’altra fonte. Il nuovo impianto normativo a cui lavora Bruxelles non dovrebbe basarsi unicamente sulla possibilità di comminare sanzioni ma dotare l’autorità di controllo anche si strumenti di intervento rapidi e concreti. In casi estremi si potrebbe arrivare all’obbligo per i colossi di cedere alcune divisioni ai concorrenti. Il piano dell’Ue segue di pochi giorni il rapporto del Congresso USA che ha evidenziato comportamenti scorretti e annusi di mercato di Amazon, Google, Facebook e Apple, auspicando una regolamentazione più severa e interventi per spezzare il loro monopolio.

A differenza di quanto avveniva in passato questi operatori del web hanno consolidato il loro potere a un livello così alto da diventare pressoché inscalfibili da parte dei concorrenti. Anche perché, potendo contare su ingenti disponibilità finanziarie, appena sorge una potenziale minaccia viene neutralizzata tramite acquisizione. Un intervento più deciso da parte dei regolatori è l’unico vero spauracchio di questi “over the top”. Spesso si fa il paragone con quanto avvenuto con i magnati del petrolio, ad esempio la Standard Oil dei Rockefeller, che nel ‘900 aveva instaurato un sostanziale monopolio e fu “spezzattata” per decisione della corte Suprema Usa nel 1911.

Nel frattempo è slittata da fine 2020 a metà 2021 l’obiettivo di arrivare in sede Ocse a una soluzione condivisa su una webtax. Pesano ‘il rallentamento delle trattative per la pandemia del Covid-19 e le divergenze politiche‘ emerse nel negoziato che coinvolge 137 Paesi. Sono stati fatti ‘consistenti progressi’, ma non e’ stato ancora trovato un accordo finale sulla riforma della fiscalita’ internazionale che risponda alle sfide della digitalizzazione dell’economia, indica un rapporto di aggiornamento pubblicato dall’Ocse. La comunita’ internazionale ha però “concordato di continuare a lavorare per un’intesa entro la meta’ del 2021′ e ha intanto approvato il nuovo schema (Blueprint) del progetto di tassazione affinche’ sia sottoposto alla consultazione pubblica. La prospettiva e’ quella di una proroga del mandato da parte del G20 per far continuare le discussioni l’anno prossimo, quando tra l’altro sara’ l’Italia ad assumere la presidenza del G20, che ora e’ dell’Arabia Saudita. La riforma della fiscalita’ sui colossi del mondo digitale rientra nel progetto Beps (base erosion and profit shifting), che mira ad assicurare che le tasse siano pagate dove avvengono effettivamente le attivita’ economiche e contrastare quindi il trasferimento degli utili verso Paesi con una fiscalita’ agevolata, o addirittura inesistente, a danno della base imponibile in molti Paesi in cui grandi conglomerati globali operano attraverso controllate. Nella sostanza l’obiettivo e’ quello di definire quanto, dove e come tassare i giganti del web. Se il modello Ocse venisse approvato si stima che porterebbe ad un gettito aggiuntivo di circa 100 miliardi di dollari.

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