In una recente intervista al quotidiano Il Riformista, l’On. Fausto Bertinotti ha sostenuto che il referendum sulla riduzione del numero dei Parlamentari è collegato al rifiuto della casta e alla crisi della democrazia e delle sue istituzioni, in particolare alla crisi della sinistra. Bertinotti è certamente un osservatore attento e qualificato, ma la sua analisi è monca: certamente sono in crisi la democrazia rappresentativa e la sinistra, ma perché? Dove abbiamo sbagliato?

Una crisi grave come l’attuale non si può ridurre ad una disamina di reali o presunte malefatte di singole persone, per quanto investite di ruoli di potere: deve avere ragioni profonde, di natura strutturale, tali da rendere dubbio il rapporto tra la teoria e la prassi politica. Del resto “crisi” della sinistra erano state analizzate, ma non risolte, già da Gramsci e da Pasolini. Un problema strutturale della teoria marxista, ampiamente riconosciuto, la cui rilevanza è oggi particolarmente grave mi sembra trovarsi nel concetto della classe sociale.

Se infatti è vera la descrizione della società come teatro della contrapposizione di interessi tra le diverse categorie sociali, insita nel materialismo dialettico, l’idea che le categorie abbiano le caratteristiche che Marx attribuiva alla classe sociale è oggi insostenibile, se mai lo è stata. Marx pensava che i membri della classe sociale condividessero una ideologia comune, determinata dalle loro condizioni economiche e dal riconoscersi come un gruppo unico; e che fossero uniti dalla coscienza di classe e dalla solidarietà. Era del resto una moda del tempo interrogarsi sui determinanti materiali o biologici dell’ideazione.

Marx non negava l’esistenza di categorie sociali che non sono classi, ad esempio i contadini: questi, pur condividendo le condizioni materiali dell’esistenza, lavorano individualmente e non sviluppano coscienza, ideologia e solidarietà di classe. Però Marx considerava le categorie-non-classi un ostacolo per l’organizzazione della futura società comunista. Gramsci fu tra i teorici che si accorsero dei difetti del concetto di classe quando notò che gran parte degli operai, nel corso della prima guerra mondiale, aveva aderito all’ideologia delle categorie dominanti dei rispettivi paesi, invece di unirsi nella solidarietà del proletariato internazionale.

La rielaborazione teorica gramsciana ipotizzava che il proletariato avesse una sua inespressa e spontanea ideologia di classe e che aderisse all’ideologia elaborata dalla classe dominante perché questa era l’unica ad essere espressa e formalizzata in pubblico; coerentemente, Gramsci assegnava all’intellettuale organico di partito il compito di raccogliere, formalizzare e rendere pubblica l’ideologia spontanea delle classi dominate.

Molti intellettuali di sinistra si cimentarono in questa prova con scarso successo, finché Pier Paolo Pasolini ebbe il coraggio di riconoscere che il proletariato inurbato pendeva ideologicamente più verso la destra estrema che verso la sinistra: l’ideologia delle classi dominanti, o addirittura della destra extraparlamentare e quindi non dominante, continuava a prevalere sull’ideologia di sinistra. Del resto tutti abbiamo visto il miliardario Silvio Berlusconi o la Lega raccogliere voti di operai e proletari.

E’ necessario a mio parere prendere atto che nessuna categoria sociale possiede le proprietà che Marx attribuiva alla classe: non esistono o sono rare le persone che possiedono la coscienza o la solidarietà di classe. La prova più evidente sta nel rifiuto dei migranti, diffuso soprattutto tra le categorie sociali svantaggiate che temono di essere danneggiate dall’arrivo di questi perseguitati: la solidarietà del proletariato internazionale è una pura illusione.

Rinunciare al concetto di classe (mantenendo invece la contrapposizione tra le categorie sociali) significa riscrivere totalmente la teoria politica di sinistra. Ciò che si perde, a parte la retorica della lotta di classe, sostituita da un meno romantico confronto tra categorie sociali, è il peggio dell’ideologia comunista realizzata: ad esempio il totalitarismo, in favore della democrazia.

Infatti il comunismo reale non è mai stato democratico, non tanto per velleità dittatoriali dei suoi capi (che pure c’erano), quanto perché perseguiva la posizione teorica che tutti i membri di una società costituita da un’unica classe condividano la stessa ideologia di classe e siano automaticamente d’accordo sulla linea politica del paese. Di qui anche l’uso politico della psichiatria, essendo il dissidente una persona le cui idee sono patologiche perché difformi da quelle determinate dalle sue condizioni socio-economiche. Queste aberrazioni vengono a cadere da sole nel momento in cui si ammette che la categoria sociale di appartenenza non è il principale determinante del pensiero.

Una sinistra che rinunci al concetto di classe sociale non può più presentarsi come interprete o rappresentante privilegiato di una o più classi: elabora la sua ideologia e la sua proposta politica e la propone al voto dei cittadini come qualunque altra parte politica; ed è di sinistra chi aderisce a questa proposta, non chi è membro di una categoria sociale. Di fatto questa situazione nei paesi occidentali è in atto e quindi non costituisce in alcun modo una “rinuncia”; inoltre svuota di senso la critica comunemente rivolta ad una sinistra che avrebbe tradito la classe sociale di riferimento.

Al posto della lotta di classe subentra la contrattazione tra le categorie sociali, alla società costituita da un’unica classe la redistribuzione solidale delle risorse attraverso una imposizione fiscale fortemente progressiva. Questa disamina non ha nulla a che vedere con il referendum, ma molto con il fastidio che ormai l’elettore di sinistra prova nei confronti dei partiti tradizionalmente di sinistra che, non avendo esplicitamente rielaborato i propri principi, annaspano tra progetti velleitari, realpolitik, parole d’ordine ormai scadute e molta confusione.

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