di Anna Maria Giannini*

Nella notte fra il 5 e il 6 settembre in una piazza di Colleferro, vicino Roma, è stato ucciso in modo cruento Willy Monteiro Duarte, un ragazzo di 21 anni. La dinamica dell’aggressione è ancora allo studio degli organi inquirenti, ma secondo gli organi di stampa Willy sarebbe intervenuto per portare aiuto ad un amico e per placare gli animi in una rissa nata, a quanto pare, da un commento rivolto alla ragazza di uno dei presenti.

Si è molto discusso sull’accaduto e sotto vari profili. Non si vuole in questa sede tornare sui dettagli di azioni che ci lasciano sgomenti per la loro estrema gravità, ma piuttosto presentare alcune riflessioni che possano ampliare le chiavi di lettura. L’evento cosiddetto “scatenante” è già di per sé sorprendente nel 2020, in un secolo in cui già da tempo si frequenta lo spazio, si percorre un itinerario di progresso e civilizzazione sul piano della tecnica, della scienza; avanza la robotica, raggiunge livelli notevoli l’intelligenza artificiale e cosi via.

Ma il comportamento umano? Le condotte che regolano i rapporti e i processi di socializzazione? Hanno lo stesso ritmo nella civilizzazione e nel progresso? Fuori da ogni generalizzazione sembra proprio di poter affermare che davvero no. Le fasce giovanili non fanno eccezione: regolano ancora oggi eventi come il commento (anche se pesante e sgradevole, cosa decisamente disdicevole) alla propria partner con la rissa, lo scontro fisico, chiamando in aiuto gli amici perché il pestaggio sia più plateale, cruento e d’impatto.

Abbiamo lasciato alle nostre spalle epoche in cui certe questioni si risolvevano con la violenza fisica. Ma abbiamo davvero abbandonato definitivamente modalità che oggi non sono certo considerate civili? Come mai ragazzi intorno ai venti anni pensano di scatenare risse di estrema violenza per “vendicare” la ragazza? Per sottolinearne la proprietà? Per dare un segnale fortissimo di marcatura del terreno di proprietà? Sono domande sulle quali davvero dovremmo tutti soffermarci.

Certamente e per fortuna non tutti si comportano così e dobbiamo stare attenti alle generalizzazioni; tuttavia questo evento, di cui ci stiamo occupando, non è un caso isolato. Di eventi simili ce ne sono diversi, per fortuna non finiscono con la perdita della vita, ma l’uso “trogloditico” della forza bruta, dell’aggressione, del pestaggio, delle lotte fra bande, delle spedizioni punitive è ancora in uso. E proprio nelle fasce giovanili!

E quale si rivela essere il destino di chi civilmente cerca di intervenire proteggendo chi viene aggredito? Quello di essere a sua volta coinvolto e massacrato. Gli aggressori non hanno regole se non quelle di affermazione della loro forza bruta. Non sanno affrontare i conflitti sul piano del civile confronto, ma non osservano neanche la regola di base che vieta la disparità di forze in campo: 4, 5 o anche di più contro uno. Infierendo quando la vittima è a terra e non può difendersi.

Trionfo della debolezza e vigliaccheria. Il quadro è sconfortante: e non si parli di palestre e arti marziali. Lo sport e le arti marziali sono proprio il contrario: educazione alle regole, formazione all’uso del controllo e delle tecniche, crescita nel rispetto. In questi casi abbiamo il più tragico e scorretto uso delle conoscenze dell’educazione fisica, la quale diviene, per certi soggetti, diseducazione fisica (uso delle conoscenze tecniche e della forza per obiettivi distruttivi).

E’ l’educazione fisica e psicologica, la formazione, la cultura, la lettura, la coltivazione delle attività di riflessione ciò che combatte il ricorso alla “forza bruta”, al lasciarsi andare agli “istinti primordiali distruttivi”. Un processo complesso che deve essere sviluppato in tutto l’arco di vita. Deve essere avviato dalla famiglia e sostenuto e sviluppato dalle agenzie educative, dai luoghi ricreativi, dallo sport. Nel percorso di vita il processo di educazione ed evoluzione psicologica devono essere coltivati con le letture, l’arte, la frequentazione dei musei, dei teatri, dei cinema, attività sportive, luoghi ludici ed altro.

Il processo di pensiero che comporta la sospensione dell’azione e lascia spazio alla parola per la gestione delle relazioni e anche dei conflitti deve essere il costante riferimento. Inutile, o forse molto utile, aggiungere che il ricorso a droghe (spesso proprio nei luoghi di ritrovo) aggiunge la possibilità di alterazioni dei comportamenti e della possibilità di controllo: specialmente nell’assunzione di sostanze di cui non si conoscono gli effetti o mischiate fra di loro e con alcol.

Il cosiddetto “sballo”, talvolta fortemente ricercato, comporta la perdita dei fondamentali perimetri di controllo delle conseguenze delle proprie azioni. Tanta strada da fare per dire davvero che viviamo in società civili e civilizzate.

*Psicologa e psicoterapeuta

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