È possibile prendere a pretesto il Covid per non parlare del Covid, ma dello stato della nostra democrazia? Anzi, dello stato di quel dibattito pubblico che dovrebbe costituire la quintessenza stessa di una società democratica? Secondo me, sì. Tutto quanto accaduto, dall’esordio dell’emergenza Coronavirus ad oggi, costituisce una magnifica cartina di tornasole rispetto a una questione ben precisa. Meno drammatica, sicuramente, ma altrettanto importante delle disquisizioni sul virus e sul suo grado di letalità.

È come se l’epidemia avesse accelerato, e nel contempo reso più plasticamente evidenti, alcune “tare” del discorso pubblico. Più precisamente: del modo in cui si discute e ci si confronta, nella cosiddetta società aperta, a partire dai salotti televisivi per finire nelle sale d’aspetto del barbiere. Insomma, ovunque. E questo “modo” è connotato da un altissimo grado di ignoranza dell’arte del buon argomentare.

Non pretendiamo, sia chiaro – né dai protagonisti dei talk show né tantomeno dai cittadini comuni – una conoscenza di livello accademico della logica e della dialettica greco-romane. E neppure una dimestichezza con le regole, e le insidie, del sillogismo aristotelico. Tuttavia, dalla nostra tradizione classica e dagli approfondimenti compiuti da Aristotele sulle tecniche del dialogo, sulle sue forme e sulle sue distorsioni possiamo ben trarre lo spunto per la presente riflessione.

Infatti, fu proprio l’allievo di Platone, nel De sophisticis elenchis, a proporre una prima classificazione delle cosiddette “fallacie”. Laddove per “fallacia” si intende un argomento (solo) apparentemente logico e fondato, ma in realtà suggestivo e capzioso. La fallacia è tanto più insidiosa quanto meno il suo destinatario è addestrato a individuarla. E oggi viviamo in un’epoca in cui il “ragionamento” fallace va via come il pane a causa di una impreparazione diffusa soprattutto tra il grande pubblico.

Ora torniamo al Covid, il tema più gettonato dell’anno. All’inizio, quando il contagio sembrava un (lontano) problema cinese, a livello politico e mediatico lo si è affrontato con la tecnica della cosiddetta ignoratio elenchi ovvero, per così dire, “cambiando discorso”. Non rispondendo, cioè, in maniera calibrata e pertinente, al rischio effettivo alle porte. Bensì, spostando il focus della discussione su tutt’altro fronte: quello del “rischio razzismo”.

Così, una malattia nuova, grave, addirittura letale, è stata sottovalutata proprio nel momento in cui più alta doveva essere la guardia. Poi, quando il morbo ha drasticamente ridotto i suoi nefasti effetti, è scattata la corsa alla sopravvalutazione. A quel punto, è diventata virale la fallacia “ad metum” (ovvero, il ricorso alla paura). Nel dibattito pubblico, non si è più tollerato il minimo scostamento da una linea d’azione rigidissima ed evidentemente sproporzionata. E si è fatto abbondante, e biasimevole, ricorso a un nuovo “contagio”: quello della paura, appunto.

Qualsiasi tentativo di impostare un ragionamento serio, fondato, razionale sulla gestione del virus è stato letteralmente soffocato sul nascere grazie al richiamo a sentimenti ancestrali, ma dialetticamente efficacissimi: il timore, la preoccupazione o persino il panico.

A ruota, sono state impiegate in abbondanza altre due fallacie in grado di inibire, anzi incenerire addirittura, qualsiasi conato dialogico: quella “ad hominem” e quella “ad auctoritatem”. La prima consiste in un attacco frontale alla persona dell’interlocutore onde squalificarne l’immagine ed evitare la fatica di intavolare un contraddittorio.

In particolare, non si è solo riesumato il famigerato epiteto di “negazionista” verso i pochissimi paranoici negatori (per partito preso) dell’esistenza stessa del virus. Lo si è fatto anche, e soprattutto, nei confronti di moltissimi (e ragionevoli) critici delle maniere – sovente controproducenti, unilaterali o addirittura brutali – con cui il virus è stato affrontato e raccontato negli ultimi tempi.

La fallacia “ad auctoritatem” consiste, invece, nell’appello ad autorità indiscusse, sedicenti o apparenti tali, soprattutto in ambito scientifico. Essa si è tradotta in un ossessivo richiamo al nuovo dogma teocratico della “Scienza” e alla figura salvifica dello “Scienziato”. Ma con spirito e approccio tutt’altro che scientifici.

Da un lato, si è operato dimenticando che la vicenda in atto ha una pluralità di sfaccettature, pertinenti a discipline o dimensioni plurime e variegate: da quella politica a quella psicologica, da quella giuridica a quella sociale.

Dall’altro lato, enfatizzando artatamente solo alcuni esponenti della cosiddetta “Scienza”, e cioè quelli più proni alla linea allarmistica ad oltranza prediletta dall’establishment e dal mainstream. Concludendo, è indifferibile un recupero della nostra straordinaria tradizione logica e dialettica: sia per disinnescare i manipolatori di professione, sia per rieducarci alle regole, e alle trappole, del dialogo privato e del pubblico dibattito.

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