Due film presentati ieri alla Mostra del Cinema, Notturno di Gianfranco Rosi e Guerra e pace di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, presentano diversamente la guerra. Nessuno dei due film descrive una guerra in particolare, ma entrambi raccontano il sentimento e il senso, o piuttosto il non-senso della guerra in generale.

Notturno, in uscita oggi nelle sale italiane, costruisce un’immagine diffratta della guerra. Girato tra Siria, Libano, Kurdistan e Iraq, il film si sgancia dai luoghi per seguire frammenti di vita di alcune persone, non importa dove siano collocate. Un bambino presenta alla maestra i suoi disegni che evocano con crudezza le violenze e le decapitazioni dell’Isis; un gruppo di ospiti di un manicomio prova una pièce che racconterà la storia del Medio Oriente, un cacciatore parte all’alba per andare a caccia col suo barchino in una palude.

La guerra è spesso lontana, percepita soltanto attraverso il crepitio delle mitragliatrici, riempie l’immagine di attesa, di fuori campo. Macerie di affetti si accumulano accanto alle macerie delle case: un figlio manda messaggi vocali alla madre raccontandole le sue difficoltà. Nel film di Rosi non c’è spazio per la costruzione di una trama né per seguire un personaggio dall’inizio alla fine. Semmai, ci sono alcuni fili rossi: le prove della pièce all’interno del manicomio, il richiamo al senso di appartenenza alla Patria, la precarietà e fragilità delle vite, la cui condizione naturale è quella della rottura, dell’interruzione.

La guerra è intermittente, va e viene, a volte irrompe disastrosamente, altre volte sta silente e lontana. Questa è la perenne condizione di chi non può vedere il proprio futuro, come il giovane Alì, che guarda fuori campo in una delle più belle inquadrature del film, senza sapere bene cosa guardare. Rosi scrive la guerra montandone le immagini con grande efficacia. E tuttavia la guerra di Notturno è forse un po’ troppo composta e a favore di camera, un po’ troppo compunta per travolgere davvero l’emozione.

Assai più radicale è invece il modo di costruire la guerra e il suo intrecciarsi continuo con la pace nell’altro film visto ieri. Anche Guerra e pace imbastisce il suo racconto a partire da molti frammenti, e anzi quest’idea è plasticamente presente fin dall’inizio, con una vecchia lastra fotografica in frantumi che qualcuno cerca di ricomporre.

Guerra e cinema hanno sempre convissuto, e c’è un’etica delle immagini nel descrivere la guerra, una loro ferocia e d’altra parte una loro trasparenza. Gli archivi che conservano le immagini delle guerre sembrano raccolte di oggetti muti e invece sono riserve inesauribili di senso. Le immagini svelano molto più della scrittura. Un bambino gioca con una pistola puntandola su un soldato che ride. E’ talmente abituato alla guerra da averla naturalizzata, da averla trasformata in spazio per un gioco. E la Libia, vero emblema del legame tra guerra e cinema, può essere il primo soggetto delle immagini.

Da un lato c’è la guerra del 1911, mostrata da immagini instabili e spesso troppo organizzate, troppo “messe in scena”, ma chiare nella loro artificialità. Dall’altro lato c’è la Libia di oggi, in cui la guerra scorre fuori campo, nelle interpretazioni dello scacchiere che qualcuno dà al telefono mentre vediamo scorrere le immagini di un laboratorio di restauro di pellicole. Ordine e disordine: frammenti di vecchie pellicole e, all’altro capo, l’unità di crisi della Farnesina che “riordina” le guerre, le segue per vagliare i pericoli. Aiuto e controllo.

Oppure una scuola di educazione alle immagini in Francia, dove si insegna ad analizzare e quindi ordinare il senso delle immagini a qualcuno che poi dovrà fare il reporter nelle zone calde. Fino ai dilemmi etici e ultimi dell’immagine: in una situazione di pericolo bisogna filmare o sparare? Il film di Parenti e D’Anolfi scompone tutto, va verso l’eccesso, lo scandalo che è la guerra e la sua immagine, e in questo modo restituisce con più durezza, ma anche più verità, il senso del legame tra guerra e cinema.

Che è anche un legame di testimonianza: cosa succederà quando l’ultimo testimone di una tragedia sarà scomparso? Resteranno le immagini, con il loro mistero e le loro lacerazioni, ferite aperte per offrirci un varco alla comprensione.

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