2 agosto 1980, il boato, i vagoni squarciati, i passeggeri dilaniati da schegge e detriti. Ottantacinque morti e duecento feriti. La strage più grave di tutte le stragi quaranta anni fa chiudeva gli anni Settanta con un eccidio spietato e ancora senza movente. Il gran botto doveva coprire i segreti di Ustica? Oppure si trattava di un complicato messaggio della P2 a chi si accingeva a liquidare la rete che aveva gestito la Guerra fredda? Appena sei mesi dopo furono trovate le liste segrete, alti ufficiali del Supersismi finirono in carcere mentre Licio Gelli si accingeva alla fuga.

Interrogativi rimasti per decenni senza risposta, ma grazie alla procura generale di Bologna la trama comincia a dipanarsi e sembra dar ragione a chi aveva sempre creduto a queste ipotesi. Il nuovo massacro avrebbe rassicurato gli apparati Nato coinvolti in un’operazione di guerra segreta che appena un mese prima aveva provocato altri 80 morti. Bisognava dimostrare che anche per Ustica valeva la pista del terrorismo ma per questo c’era ancora bisogno di Loro.

Loro chi? Quest’ultimo capitolo ci offre un elenco di personaggi noti alle cronache buie del secolo scorso: Licio Gelli, Umberto Ortolani, Stefano Delle Chiaie. Conferma anche la responsabilità dei Nar ma punta ancora più in alto chiamando in causa Federico Umberto D’Amato, già capo del famigerato ufficio Affari riservati del ministero degli Interni, sciolto nel 1974 senza che lui uscisse di scena. Piduista (tessera 1643) ma in modo autonomo e autorevole, D’Amato ottenne ancora in vita una targa a lui intestata nella sala Congressi della Nato. Forse per aver organizzato la rete Gladio nel Triveneto, ma questo non c’era scritto.

Tutti morti nel frattempo, tutti tranne uno: Paolo Bellini, rinviato a giudizio dopo che l’ex moglie lo ha riconosciuto in una foto scattata alla stazione, e un nome basta a riaprire il processo. La sua presenza fra i binari fa presumere che stesse lì come supervisore, anello di congiunzione tra mandanti ed esecutori, perché Bellini non apparteneva ai Nar ma ad Avanguardia Nazionale, da sempre considerata la longa manus di D’Amato, non una semplice organizzazione terroristica.

Il burattinaio, il mandante e l’infiltrato. La prova? Cinque milioni di dollari partiti da conti svizzeri riconducibili a Licio Gelli per finanziare, organizzare la strage di Bologna e anche depistarla attraverso giornalisti compiacenti. Nelle carte ci sono i nomi e le cifre: un milione agli esecutori, 850 milioni a D’Amato, mentre qualcos’altro andò a Mario Tedeschi direttore de Il Borghese.

Dei morti sappiamo già tutto, meno noto al grande pubblico è il sopravvissuto che nonostante la sua documentata presenza in oscuri fatti di sangue è riuscito a mantenere il profilo di un personaggio minore. “Terrorista io? Semmai infiltrato, ho sempre avuto a cuore lo Stato”, ha detto di sé pur ammettendo: “Sì, ho collaborato con molti servizi stranieri, mai italiani, anche il Mossad”. Ma poi la contromossa: “Scherzavo”.

L’accusa di strage non sembra preoccuparlo, da sempre gode di uno scudo protettivo ancor prima di indossare i comodi panni del collaboratore di giustizia. Dal terrorismo nero, alla mala del Brenta, alle stragi del 1993. Al di là delle varie maschere che ha indossato, Bellini resta un killer professionista legato ai piani alti dell’eversione, Spericolato pilota di aerei e ladro di opere d’arte, ha trattato con la mafia nei mesi in cui a Palermo morivano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Quando fu arrestato, nel 1999, ammise con disinvoltura una decina di omicidi di ‘ndrangheta fra la Romagna e la Calabria. Per qualificarsi come pentito confessò l’uccisione di Alceste Campanile, di Lotta continua: ormai erano passati 30 anni e non era più punibile.

E quando la sua prima vita di terrorista si è conclusa, il 26 novembre del 1991 sbarcò in Sicilia, pernottò all’hotel Agip di Messina dove si qualificò come consulente di un’azienda del nord. Ma il 6 dicembre era di nuovo in Sicilia e pernottò a Enna. Dove quella sera si svolse il famoso summit di mafia in cui Totò Riina annunciò “la resa dei conti”.

Il capitolo siciliano trovò sbocco nel processo sulla Trattativa, dove Bellini ha cercato di qualificarsi come un infiltrato del Nucleo Patrimonio artistico, e anche di Mori; in realtà i contatti furono presi quando già da mesi lui andava e veniva dalla Sicilia. Forse per conto dello stesso team che lo aveva utilizzato a Bologna. Il nodo furono i suoi incontri con Nino Gioè, suo ex compagno di cella nel carcere di Sciacca: l’idea di colpire chiese e monumenti, che diede vita alle stragi del 1993, prese corpo tra Bagheria e Altofonte.

A raccontare le strane conversazioni tra il mafioso e l’infiltrato fu Giovanni Brusca che andò di corsa a riferirle a Riina, l’idea piacque al Capo dei capi. Infiltrato o agente provocatore? Quando Brusca nel 1996 si pentì, Bellini doveva essere molto preoccupato. Mi chiamò al Messaggero il giorno in cui apparve sul giornale un mio trafiletto che lo riguardava. Era un simpatico logorroico, raccontava molto di sé, mi confidò perfino di essere sieropositivo.

Nei mesi successivi prese a telefonarmi spesso, finalmente fissammo un appuntamento per un’intervista ma quando fu il momento scomparve. Mesi dopo ero a Venezia per l’interrogatorio di Felice Maniero e lui si rifece vivo. Non ho mai capito come facesse a sapere dove mi trovavo. Poi sparì definitivamente e fu una fortuna: due anni dopo scoprii che Bellini era un killer professionista.

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Strage di Bologna, è ora di infrangere quel muro eretto per separare esecutori e mandanti

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