L’ex vescovo di Trapani Francesco Miccichè è stato rinviato a giudizio con l’accusa di peculato per la gestione dei fondi dell’8xmille dal 2007 al 2012. Secondo l’accusa ha intascato oltre 300mila euro e con una parte dei soldi sottratti acquistò perfino un appartamento a Roma, in zona Barberini. Ma l’intervento dei pm di Trapani bloccò il preliminare di vendita a suo favore e l’immobile restò di proprietà della Diocesi trapanese. Secondo il pm Sara Morri si sarebbe appropriato di oltre 544mila euro, ma i documenti esibiti dai legali durante l’udienza preliminare e l’intervenuta prescrizione stabilita dal gup Samuele Corso, per i fatti precedenti al 7 ottobre 2017, ha diluito le accuse. A illuminare la gestione finanziaria della Curia – solleticando l’interesse degli investigatori – erano state le inchieste del settimanale locale L’Isola. Il prelato poi venne rimosso dalla carica da Papa Ratzinger, ma nonostante le indagini, continuò a dire messa in giro per l’Italia fino a qualche mese fa.

L’ex vescovo era autorizzato ad operare sui due conti correnti, in cui tra il 2007 e il 2011, confluirono quasi 5 milioni di euro: 1.854.013,63 euro nel conto ‘Interventi Caritativi’ e 3.088.801,31 nel conto ‘Esigenze di Culto e Pastorale’, entrambi intestati alla Diocesi di Trapani. Le risorse si riferivano ai fondi dell’8xmille che dovevano essere impiegati “per esigenze di culto della popolazione, sostentamento del clero, interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di paesi del terzo mondo”. Soltanto nel 2007, Miccichè per l’accusa si è appropriato di 117 mila euro attraverso assegni bancari, in parte incassati dal cognato Teodoro Canepa. L’intera contestazione però è finita in prescrizione. Dovrà motivare invece la destinazione di oltre 203 mila euro “trattenuti da prelevamenti in contanti allo sportello“.

Nel 2015, gli agenti del Corpo Forestale di Trapani sequestrarono anche dei beni artistici del valore di oltre 3 milioni, custoditi da Miccichè in una villa a Monreale (Palermo), tra cui una fontana del Seicento, un pianoforte del Settecento, oggetti in avorio, crocifissi in legno e corallo, oltre che un’anfora greca inestimabile. Tutti i beni sono ancora sotto sequestro e nell’ultima udienza l’avvocato Mario Caputo (legale di fiducia di Miccichè) è tornato a chiederne la restituzione. All’interno della Curia qualcuno si era perfino accorto di questi prelievi. L’ex direttore della Caritas, don Sergio Librizzi (condannato a 9 anni per concussione, sentenza poi annullata dalla Cassazione) ne era a conoscenza, ma in cambio avrebbe chiesto a sua volta a Miccichè di tacere su quella che è una delle accuse che i pm gli rivolgono: aver chiesto prestazioni sessuali ai migranti in cambio dello status di richiedente asilo.

Originario di Monreale, il suo nome è legato a doppio filo con quello di monsignor Salvatore Cassisa, morto nel 2015 e più volte indagato per vari episodi controversi, di cui parlò anche il pentito di mafia Angelo Siino. Trapanese d’origine e monrealese d’adozione, fu lui nel 1989 a proporre la nomina episcopale di Miccichè. “Il lento iter della giustizia ha permesso che il diritto alla mia buona fama venisse ulteriormente leso dai “si dice” non troppo velati di anonimi che circolano tra i vescovi della Sicilia”, scrisse l’ex vescovo nel 2014 in una lettera inviata all’allora procuratore capo di Trapani, Marcello Viola. “All’interno della Chiesa non solo mi viene negato il diritto di difendermi – continuava la missiva – ma mi è negata anche la possibilità di dialogare con chi detiene il potere e lo esercita con supponenza e sfacciata arroganza”. Da allora però Miccichè riuscì in più di un’occasione ad incontrare Papa Bergoglio.

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