Tu sei la compagna della sopravvivenza. Direbbe Limonov. O Carrére. Sei fatta per contagiare gli altri dell’ottusità speranzosa tipica di un’indole imprecisa, devota o isterica, spesso docile per pigrizia. O cieca, furiosamente cieca dinanzi alla stoltezza di certe ombre cattive piombate su luci inesatte. Rimettevi a posto le cose, era la tua specialità.

La creaturina non aveva un’età. Era una sorella. Una sorella laica. E tu per anni non le hai mai chiesto: “sei davvero di questo mondo?” Lei ti guardava dal suo letto, dove viveva inchiodata alla sua inabilità. Ti guardava, con un sorriso celeste, non per estensione, celeste come certi splendori che ti agguantano di colpo, quando non credi, quando realizzi che la vita – diceva Jaromil, il poeta de La vita è altrove – abbia smesso di costruire le sue stazioni. Ma era il destino, nel qual caso. Ed eri troppo giovane per chiamarlo destino. Sotto lo stipite della porta, poggiata al pilone, eri fradicia della pioggia che ti aveva sorpreso per strada. Avevi capelli duri, spessi, legati di solito. Eri sfinita, di solito.

La creaturina sorrideva: vieni, su. Siediti, diceva con la sua voce sottile. Di fronte a lei, sulla poltrona di velluto damasco, in una stanza fredda di un palazzo vittoriano, dormiva Pietro, balordo in cerca di soldi. Ubriaco. Dormiva. Seduto così composto, da morir dal ridere, da non poterne più.

La vita aveva smesso di costruire le sue stazioni, pensavi. Avevi appena letto Kundera. Ed era il caso di conformarsi a tutte le ineluttabilità. Tanto avresti acceso una sigaretta dopo e pensato al mondo con eccitazione. Il professore ti avrebbe rimproverato: sveglia, ragazza, non è una strada questa. Ti rimproverava.

Intorno vibrava il caos innocente di un via vai di poveri, i diseredati, esatti nella mestizia, in una ebbrezza di disperazione e remissione libera e gioiosa, del dono che si rimedia, di un giorno che si guadagna senza troppo crucciarsi. I poveri. Li avresti amati veramente? Li osservavi con curiosità, seduta sulla sponda del letto della creaturina. Le stringevi la mano, era piccola, ossuta, la mano di una bambina.

La pelle era bianchissima, sfumava ingrigita nella trasparenza e nelle vene sollevate, tenerissime, come virgulti. Pietro alle tue spalle dormiva. Pietro russava i suoi eccessi alcolici, da dover aprire le finestre. L’odore di chi vive per strada è un odore di vento, dicevi. Non sapevi trovare le parole. Non scrivevi, o perlomeno, scrivevi con indolenza, non ti importava un accidenti se non di vivere. Guardavi la creaturina, poi piangevi, era tutto così difficile, le confidavi. Anche tu avevi una vocina piccola, la voce infantile della ragazza interrotta. Lo eri, certo. Era un vezzo, allora, i tuoi vestiti antichi lo erano. La tua insopportabile malinconia lo era.

Cosa devo fare? Chiedevi, piena di attesa.

E allora entrava il professore, in maniche di camicia. La sigaretta senza filtro puzzava terribilmente, ti ricordava le sigarette di Amos, in casa di nonna a Terni. Ti chiamavano: chicchia, ti strizzavano le guance. Ti riempivano di baci.

Eri una bambina felice e silenziosa. In casa dei nonni, eri felice e silenziosa. Nonna ti chiedeva – alle due del pomeriggio, condominio popolare, profumo di sugo di cinghiale e gnocchi sul piatto – dicevo nonna ti chiedeva: “Balli?” Suonava la radiolina, la mazurca. Tu facevi sì con la testolina bruna.

Ballavate. “Stella dorata”. Diceva nonna.

Il professore si irritava del caos. Era un caos. C’erano i ragazzi del campo. Erano kosovari e bosniaci. Oscar era un efebo. Semplicemente indossava talune lenti con l’iride bianca e aveva occhi spaventosi. Forse si prostituiva. Suo padre aveva tentato di arrotarlo. Era finito in carcere, poi ha ingoiato una lametta ed era tornato al campo. Era un brutto tipo. Uno pericoloso. Si sarebbe messo nei guai prima o dopo, sarebbe tornato dentro e al campo avrebbero festeggiato. Era proprio un brutto tipo.

Una notte, la roulotte prese fuoco. Oscar era un bambino. Tutto anneriva dentro un altro nero, fino all’alba. L’alba era nera.
Frequentavi i sopravvissuti della terra. Lo sapevi? Lo avevi capito.

Il professore si arrabbiava e tornava in cucina, preparava il caffè. Quando crollarono le Twin Towers, il professore preparava il caffè. Ricordi?

Tu hai incontrato i sopravvissuti della terra, seduta sul letto della creaturina.

Avevi 25 anni. Eccolo il mondo, piano piano attraversavi la cruna di questo inedito brano. Ti era concesso come il più esoso dei privilegi. Saresti stata una testimone. Proveremo a raccontarlo, insieme, con calma.

La sera tornavi a servire ai tavoli del club addobbato di drappi nello stile della Belle Epoque e tu eri graziosa, malinconica e trapassata. Avevi una vita davanti, malgrado ti sentissi vecchissima, era l’unica possibile.

Ti piaceva Kusturica, guardavi tutti i suoi film. Piangevi e ridevi, nello stesso momento. Questa è la poesia, mia cara, dicevi in un sussurro, proteso al mondo, il genio di Milos Forman, un po’ di Fellini, il tetto degli apolidi e il più sublime dei dolori, dicevi. Ovviamente eri molto giovane e privilegiata e non sapevi quante volte il più sublime dei dolori avrebbe interrogato te.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini

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