Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Cecoslovacchia. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli divisa. Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)

Sono tutti lì. Con il numero 1 cucito dietro alla schiena e con le mani conficcate in un paio di guantoni. Indossano con aria fiera maglie sgargianti, anche se nessuno andrebbe mai in un negozio per comprarne una. Perché sognare non costa niente e allora tanto vale volare alto, fantasticare di far esplodere uno stadio con un un tiro da lontano o con un dribbling che infierisce sull’autostima dell’avversario. In porta, invece, spesso ci si finisce per caso. Per mancanza di un uomo o per la propria manifesta inferiorità con i piedi. Più raramente per vocazione. Eppure a Italia 90 sono tutti lì. Una generazione di portieri fenomenali, un piccolo esercito capace di trasformare i sogni di gloria degli attaccanti in incubi ad occhi aperti. Perché nel Mondiale più abbottonato di sempre non bassa superare le folte linee difensive. Bisogna anche trafiggere gli estremi difensori più iconici degli ultimi decenni. Zenga, Higuita, Dasaev, Shilton, Bonner, N’Kono, Preud’homme, Zubizarreta, Meola, Pumpido, Conejo. Vecchi assi ed emergenti, uomini che hanno accarezzato la gloria o che stanno per farsela sfuggire dalle mani. Perché per molti di loro quelle notti saranno tutto fuorché magiche.

Nel 1990 Walter Zenga viene proclamato miglior portiere del mondo. Per la seconda volta consecutiva. Capelli lunghi, chewing-gum in bocca e collanina perennemente fuori dalla maglietta, l’estremo difensore dell’Inter è cintura nera nell’antica arte di dividere l’opinione pubblica. I guanti sono come la tuta di un supereroe. Lo rendono elegante, coraggioso, agile, leggero. Un uomo capace di volare senza ali o di schizzare a terra per togliere il pallone dall’angolino. Qualcuno lo soprannomina l’Uomo Ragno, Gianni Brera preferisce chiamarlo il Deltaplano. Poi quando si toglie la divisa da gioco ecco che esce fuori l’altra faccia. Un carattere borioso, spigoloso, infiammabile, a volte triviale. Zenga arriva al Mondiale con un problema a un dito della mano. Niente allenamenti, niente trasformazione in supereroe.

Così Walter decide di utilizzare il suo tempo nel miglior modo possibile. Brasiliani e inglesi ironizzano sul casto ritiro organizzato di Vicini. L’ex romanista Portaluppi mette addirittura in discussione le doti amatorie degli italiani. Un oltraggio alla bandiera che deve essere punito. Della controffensiva se ne occupa il numero uno azzurro. “Dite a Renato che mandi qui sua sorella o la sua fidanzata visto che dice che gli italiani non sono dediti al sesso – afferma – e per quanto riguarda gli inglesi quelli non distinguono una bandierina da una bella donna”. Giustizia è fatta, l’onore è salvo. Anche se Renato vuole avere l’ultima parola. “A noi brasiliani piace molto il sesso – dice – se agli italiani piace un po’ meno sono affari loro. Zenga? Se si arrabbia sono fatti suoi, del resto provate a chiedergli la moglie lo ha lasciato”.

Stavolta l’Uomo Ragno non risponde. Anche perché è arrivato finalmente il momento di indossare il suo costume. Zenga è difeso dalla retroguardia più forte del mondo, ma questo non lo esonera dal compiere parate importanti. Contro l’Austria Walter si limita a un’uscita rabbiosa su un calcio d’angolo, contro gli Stati Uniti si esibisce in due parate dall’alto coefficiente di difficoltà. L’Italia stenta ma va avanti. Dopo l’ottavo di finale vinto contro l’Uruguay, qualcuno gli domanda se si stia esercitando sui tiri dagli undici metri. “È vent’anni che non riesco a parare un rigore – ammette – sono un disastro. Ma prima o poi riuscirò a pararne uno, magari qui ai Mondiali”.

Peccato che resterà solo un augurio. Il 3 luglio l’Italia affronta l’Argentina nella semifinale di Napoli. Zenga non ha ancora subito un gol al Mondiale e quando Schillaci porta in vantaggio l’Italia una nazione intera si appoggia sulle spalle del numero uno nerazzurro. Walter è perfetto, almeno fino al minuto numero 68’. L’Uomo Ragno sbaglia il tempo dell’uscita, Caniggia lo anticipa e mette dentro. È il gol del pareggio. Quello che porta le squadre ai supplementari e poi ai rigori. Zenga non para neanche un tiro dal dischetto. Goycoechea ne disinnesca due. L’Argentina è finale, all’Italia restano solo i rimpianti. Dal giorno successivo Walter è sul banco degli imputati. Come se quell’uscita a vuoto potesse davvero cambiare il peso di una carriera intera.

Qualcuno giura che gli argentini abbiano provato a distrarre il portiere azzurro. “Italiano spaghetti, pizza” avrebbero urlato dal campo e dalla panchina. Walter si presenta in sala stampa e affronta tutti. A viso aperto, a testa alta. “Mi chiedete se ho colpa sul gol? Mi spiace tanto deludervi, ragazzi. Solo Maradona, che capisce di calcio, ha centrato il problema. Diego ha detto che è stato bravo Caniggia, non mi sembra il caso di dare la colpa a Zenga”. E ancora: “È stato bravo Caniggia ad anticipare una mia idea di anticipare lui”. Il Deltaplano segna un nuovo record di imbattibilità al Mondiale: 517’ minuti senza incassare un gol. Non basterà ad evitargli le frecciatine dei suoi detrattori.

Proprio come successo a René Higuita, il portiere colombiano che gioca come vive, con una patina di allegria a nascondere la disperazione. È nato alla periferia di Medellín, in un quartiere dove anche i sogni sono troppo costosi. Suo padre non l’ha mai conosciuto, sua madre muore quando è ancora un bambino. Sua nonna diventa tutta la sua famiglia. Ma i soldi non bastano. Così dopo la scuola René va a vendere i giornali per strada. Un giorno ne apre uno e lo sfoglia distrattamente. Fino a quando non vede una foto di Amadeo Carrizo, il portiere del River Plate. È allora che tutto gli appare chiaro. Con l’Atlético Nacional de Medellín vince la Libertadores nel 1989, mentre l’anno successivo perde l’Intercontinentale contro il Milan.

L’allenatore della Colombia Francisco Maturana (che era intervenuto sulla questione sesso ai Mondiali dicendo “Basta che i giocatori non lo facciano in campo durante una partita”) gli chiede solo una cosa: non lasciare più di 15 metri dai difensori centrali. Higuita obbedisce. Gioca sulla trequarti, anticipa gli attaccanti di testa e di piede, imposta l’azione. È il portiere-libero prima della rivoluzione attuata da Manuel Neuer. È lui il nuovo che avanza. “Higuita è bravo – dice Vicini – per come gioca è una specie di uomo in più ma, se io fossi il suo allenatore, in panchina rischierei ogni volta l’infarto. A me va bene Zenga”. Zoff, invece, sembra più conciliante: “Per quello che ho visto nel ruolo specifico non ho visto niente di nuovo. A parte Higuita. Nonostante certe esasperazioni il suo stile è efficace e prezioso per la Colombia”. Lo sarà un po’ meno durante gli ottavi contro il Camerun. Ai supplementari, sull’1-0 per gli africani, Higuita è sulla trequarti della difensiva della Colombia, stoppa il pallone, prova a dribblare Milla. Solo che l’attaccante gli ruba il pallone e lo deposita in rete. Higuita resta appoggiato al palo a guardare la festa africana.

Va addirittura peggio a Rinat Dasaev, il portiere dell’Unione Sovietica che era diventato il simbolo del “calcio del 2000” del Colonnello Lobanovskij. Dasaev comanda la difesa, para con la mano di richiamo, è preciso nel rilanciare la palla con le mani per far partire il contropiede. In breve tempo quel centrocampista mancato diventa il miglior giocatore dello Spartak Mosca. Il suo nome inizia a correre di bocca in bocca nel giugno 1982, quando all’esordio nel Mondiale spagnolo l’Unione Sovietica si porta in vantaggio sul Brasile. Per quasi un’ora i carioca attaccano a pieno organico, scagliando un pallone dietro l’altro contro la porta dell’URSS. Dasaev para tutto. Tutto tranne due palloni. L’Unione Sovietica esce sconfitta ma trova il portiere più forte del mondo.

Dasaev diventa il simbolo del Partito, ma decide di nascondere la sua fede musulmana. Nel 1988 si accasa al Siviglia. Il grosso del trasferimento va al Governo (più di un milione di euro al cambio attuale), lui deve accontentarsi delle briciole. In Spagna le cose non vanno bene, Dasaev si sente sempre più solo. Ai Mondiali del 1990 è ancora lui il titolare. Ma dura poco. Nell’esordio contro la Romania, l’Unione Sovietica scende in campo senza la scritta CCCP sulla maglia. Dasaev prende due gol, entrambi da Lacatus. E sul primo ha più di una colpa. Lobanovskij lo ringrazia e lo manda in pensione. Ora tocca a Uvarov. Un anno più tardi “Cortina di Ferro” mette fine alla sua carriera e inizia un lungo cammino nell’autodistruzione. Seguono due gravi incidenti d’auto e un’amicizia intima con la bottiglia. Per quasi un decennio fa sparire le proprie tracce. Si sa solo che ha vissuto in una situazione di indigenza prima di iniziare a lavorare nelle giovanili dello Spartak.

E proprio contro l’URSS di Uvarov si è chiuso il Mondiale di Nery Pumpido, portiere campione del mondo in carica. Nella prima prima partita un errore dell’argentino regala la vittoria al Camerun. Il suo secondo match non dura neanche 10’. Pumpido si scontra con Julio Olarticoechea. Tibia e perone vanno in frantumi. Al suo posto entra Sergio Goycoechea, giustiziere dagli undici metri di Jugoslavia e Italia. Ma quello del ’90 è anche il Mondiale di Pat Bonner, l’estremo difensore del Celtic che ripete ossessivamente il segno della croce. Agli ottavi contro la Romania finisce ai rigori. E Pat para a Timofte il penalty che lancia l’Irlanda ai quarti senza aver mai vinto una partita.

Gabelo Conejo, il sorprendente portiere della Costa Rica, si rivolge a Dio in altro modo. Prima di ogni partita si inginocchia sul prato e si raccomanda all’Altissimo. E lui sembra anche ascoltarlo. Nella gara inaugurale contro il Brasile il portiere coi baffoni e il fisico tozzo vola da una parte all’altra dell’area di rigore. Per quattro volte viene salvato dai legni, al resto ci pensano i suoi interventi. Alla fine, per batterlo, ci vuole un tiro di Muller deviato da Montero e Flores. E Conejo diventerà uno dei simboli di quella squadra che arriverà fino agli ottavi di finale. Peter Shilton, il “Matusalemme dei portieri” difende i pali dell’Inghilterra a 41 anni. L’eroe dei successi del Nottingham Forest trascina i Tre Leoni al Mondiale ma sbarca in Italia con un problema al ginocchio e una scarsa forma. Questa volta non ci sarà la Mano de Dios a condannarlo e Peter accompagnerà l’Inghilterra fino al quarto posto, raggiungendo il suo miglior traguardo con la maglia della Nazionale.

Durante le Notti Magiche Michel Preud’homme fa parlare di sé per la richiesta di giocare al pomeriggio con degli occhiali da sole disegnati proprio per lui. I suoi detrattori dicono che ha vinto poco, ma una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Uefa e un campionato possono bastare se si vincono con il Malines (due titoli nazionali li aveva vinti anche con lo Standard Liegi). Nel suo Mondiale ci sono diverse sbavature, ma nessuna è determinate per il cammino del Belgio. La sua rivincita arriverà 4 anni più tardi, quando vincerà il Premio Yashin come miglior portiere del Mondiale made in Usa.

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