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Franca Leosini non ama la parola femminicidio. Dopo anni di battaglie, questo scoraggia

Franca Leosini non ama la parola femminicidio. Dopo anni di battaglie, questo scoraggia
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“Sono tragedie umane, però basta parlare di femminicidio. Mi vengono i brividi a sentire questa parola, è proprio brutta dal punto di vista lessicale. Si tratta di un omicidio, punto. E poi mi scusi, ma esiste il maschicidio? Chi viene ucciso è vittima a prescindere dal sesso”. Questa dichiarazione rilasciata da Franca Leosini, conduttrice di Storie maledette, è stata duramente criticata da D.i.Re, la rete nazionale dei Centri antiviolenza e dalle attiviste che da trent’anni s0no impegnate contro la sottocultura sessista che alimenta femminicidio. Le ha risposto Antonella Veltri, presidente della rete nazionale dei Centri antiviolenza: “Ci sono dei motivi ben precisi per cui è stato coniato il termine femminicidio nei lontani Anni Novanta, e rigettarlo come una ‘brutta parola’, come ha fatto Franca Leosini nel presentare le nuove puntate de suo programma Storie maledette su Rai 3, non cambia la realtà dei fatti, anzi finisce solo per contribuire ad occultarla”.

Che altro dire? Suscita un certo scoramento dover affermare (ancora?) il significato della parola femminicidio e smontare banalità, semplificazioni, distorsioni o estetizzazioni che nascondono la violenza misogina e sessista che colpisce e donne in molte forme. Anche Franca Leosini predilige parole come “tragedia” per indicare lo stupro, le percosse, le violenze psicologiche, i maltrattamenti familiari, le molestie e altre violenze che colpiscono le donne in quanto donne, come se fossero cose che capitano, casi della vita, spiacevoli inciampi del destino a dispetto di numeri che fanno rabbrividire (quelli sì, Leosini, non la parola femminicidio).

Ma dopo 30 anni di progetti e politiche per far emergere il fenomeno, Convenzioni internazionali e leggi che hanno ormai adottato la parola femminicidio dobbiamo scardinare ancora la resistenza nei confronti di una definizione teorizzata da Marcela Lagarde, l’accademica messicana che coniò questa parola per indicare ogni forma di violenza commessa contro le donne nel contesto di una sottocultura patriarcale allo scopo di perpetuarne l’assoggettamento e la subordinazione. Ci sono chili di libri che analizzano il femminicidio mai sfogliati da sprovveduti commentatori da social, e neppure da giornalisti o da politici che ripetono – citandosi gli uni con gli altri – lo stesso logoro copione.

Che la parola sia brutta è davvero una scusa risibile. Si svalorizza la teorizzazione del femminicidio perché nasce in seno al pensiero femminista senza la benedizione del fallo, ovvero di un pensiero e di una parola maschile che ne certifichi la veridicità e il valore. E’ anche questo che rende particolarmente indigesta questa parola rivoluzionaria che indica la violenza fondata sul dominio maschile. Spiace che Franca Leosini non alzi lo sguardo ma scuota la testa con disappunto mentre contempla il dito che indica la luna.

@nadiesdaa

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