Sono circa 16 miliardi di euro le risorse che l’Italia spende ogni anno per mantenere in vita un sistema basato sull’utilizzo delle fonti energetiche fossili e, se si considera l’intero comparto dei sussidi dannosi per l’ambiente, si arriva alla ragguardevole cifra di 19 miliardi di euro.

Per una corretta valutazione, a questi costi andrebbero aggiunte le cosiddette esternalità negative, tra le quali quelle di natura sanitaria, vale a dire i costi che si affrontano per curare coloro che si ammalano a causa dell’esposizione all’inquinamento o degli effetti del cambiamento climatico. E qui, senza entrare nel dettaglio, siamo nell’ordine delle diverse decine di miliardi di euro all’anno.

Questa premessa per affermare che le risorse per una riconversione del sistema energetico nazionale ci sono. C’è solo da calibrarle in maniera diversa rispetto a quanto fatto finora. Se alle risorse destinate oggi allo sviluppo delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica si aggiungessero anche tutte quelle destinate a mantenere in vita l’attuale modello di sviluppo basato sui combustibili fossili, la transizione energetica verso un paese a (quasi) zero emissioni non sarebbe così complicata da realizzare.

Gli investimenti pubblici dovrebbero andare sempre più velocemente verso la de-carbonizzazione delle fonti energetiche e una maggiore indipendenza dall’estero, puntando sull’efficienza energetica e sulle fonti rinnovabili. A questo scopo, la Piattaforma europea sulle reti energetiche integrate ha previsto un budget di 4 miliardi di euro per i prossimi dieci anni per indirizzare e sostenere la ricerca sulla de-carbonizzazione del sistema energetico europeo al 2050.

A tale piattaforma partecipa attivamente anche la società pubblica italiana Ricerca sul sistema energetico (Rse), società controllata interamente dal Gestore dei servizi energetici (Gse). In un suo recente rapporto, Rse ha analizzato il sistema elettrico nazionale alla luce dell’emergenza Covid-19, sottolineando come il lockdown imposto abbia modificato i consumi elettrici nel nostro Paese, indicatore rilevante per il calo dell’attività economica nazionale.

Le conseguenze nell’essere giunti a una tale situazione a seguito di uno shock, invece che come azione programmata, sono sotto gli occhi di tutti. Rispetto ad un anno fa, vi è stato, in media, un calo della domanda elettrica del 10,8% (in Lombardia si è arrivati al -15,7%) che, unito al minor prezzo del gas (10 euro/MWh), ha fatto calare il Prezzo unico nazionale (Pun) medio del 40% (da 52,9 euro/MWh del marzo 2019 a 32 euro/MWh del marzo 2020).

Per il comparto elettrico, le fonti energetiche rinnovabili hanno rappresentato, nel marzo di quest’anno, il 42% della produzione nazionale (in aumento rispetto al 38,5% dell’anno precedente), contro il 57% delle fonti fossili (in diminuzione rispetto al 60,8% del 2019). Lo spostamento verso le rinnovabili appare modesto ma interessante, in vista di un possibile e auspicabile rinforzo al settore.

Con un focus sulla giornata di domenica 5 aprile, l’analisi di Rse rileva una domanda ulteriormente ridotta (causa lockdown), accompagnata da un’interessante produzione da fonti rinnovabili (48%), in particolare eolico e fotovoltaico (30%).

Si è configurata, essenzialmente, una situazione simile a quella prevista dal Piano clima nazionale (Pniec) per il 2030 e conferma che, al di là del fatto che nel Pniec il ruolo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica è ancora ampiamente sottostimato, sono enormi le potenzialità per un radicale cambiamento del sistema energetico, e in particolare elettrico, nel nostro Paese.

Il gas, ad esempio, che vale ancora il 35% della produzione elettrica, potrebbe accelerare la propria riduzione a favore delle rinnovabili, in particolare l’idroelettrico che, anche unito al pompaggio, può fornire un valido contributo alla flessibilità. Anche biomasse e geotermico, che operano come fonti rinnovabili rigide, potrebbero essere rese in parte flessibili con nuove azioni di natura normativa o regolatoria.

Il messaggio che il rapporto Rse ci consegna è che, anche senza modifiche strutturali, il sistema è stabile e non necessita di riduzioni al contributo delle fonti rinnovabili, come paventato da alcuni, ma che al contrario vi sono margini di ulteriore sviluppo. L’evoluzione del sistema verso un tale scenario vede quindi una sempre più ridotta quota di impianti di generazione programmabili e rilevanti (ossia di potenza maggiore o uguale a 10 Mva), attualmente gli unici a essere abilitati a fornire servizi di dispacciamento per l’esercizio in sicurezza del sistema.

Certamente un’ottima occasione per le fonti rinnovabili non programmabili e la generazione distribuita che, unite a una domanda flessibile e ai sistemi di accumulo, possono fare la differenza: il processo di riforma della regolazione del dispacciamento delineato dall’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (Arera) va proprio in questa direzione e in questo scenario le comunità energetiche assumeranno un ruolo sempre più rilevante.

In definitiva, la riduzione dei consumi in generale ed elettrici in particolare – anche se dettata da una situazione di emergenza – potrebbe essere l’occasione per ripensare il nostro stesso modello dei consumi e, quindi, di sviluppo, affinché ci si renda finalmente conto che gran parte di quello che produciamo, oltre che dannoso alla salute e all’ambiente, è anche inutile.

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