L’elenco dei 456 boss mafiosi, di cui 225 detenuti con condanna definitiva, che intendono essere scarcerati per l’emergenza Coronavirus redatto dal neo vice capo del Dap e inoltrato al ministro della Giustizia Bonafede è impressionante per il numero e la caratura criminale dei richiedenti, sconcertante perché arriva mentre il preteso rischio di contagio in carcere, già esiguo in regime di alta sicurezza durante il picco della pandemia, appare pressoché inesistente nella fase 2.

Come ha detto il procuratore antimafia Cafiero De Raho la strategia mafiosa è molto semplice e attenta più che mai ai segnali da lanciare sul territorio: “I boss ora escono a ondate: vogliono riprendere il potere” approfittando della confusione e del disagio. Il nuovo cumulo di richieste è la prosecuzione della precedente ondata dei 370 boss approdati ai domiciliari a seguito delle rivolte sincronizzate, degli orientamenti pro-decarcerazione di molti giudici di sorveglianza, dei silenzi prolungati e del modus operandi iperburocratico del Dap.

Gli effetti sono fin troppo noti e si possono riassumere nel caso del boss del clan dei Casalesi Pasquale Zagaria, ritenuto “non pericoloso” dal giudice di sorveglianza e “a rischio Covid sia in carcere che in ospedale”, trattato con ordinaria lentezza dall’amministrazione penitenziaria, che si attiva fattivamente troppo tardi, e finito “felicemente” agli arresti domiciliari a Brescia, epicentro del virus.

Ma purtroppo non c’è stato “solo” il danno oggettivo delle scarcerazioni per i boss della criminalità organizzata, che come ha sottolineato Luca Tescaroli, procuratore aggiunto a Firenze e già pm a Caltanissetta nel processo per la strage di Capaci, costituiscono un segnale alle vittime e ai testimoni di giustizia di “riaffermazione della forza della criminalità mafiosa e danno l’impressione di una concessione da parte dello Stato”, mentre “il sistema penitenziario deve essere efficace per tutelare le garanzie dei cittadini, soprattutto quelli esposti alle aggressioni mafiose” altrimenti pure con i migliori intenti umanitari “si rischia che la mafia ottenga quello che voleva a suon di bombe nel 92-93”.

C’è stato il disvalore aggiunto di una polemica di cui il sistema giustizia non aveva davvero bisogno, nata nel salotto-arena di Massimo Giletti e strumentalizzata nel modo più spregiudicato dal partito vastissimo e trasversale dei nemici storici di Nino Di Matteo e di Alfonso Bonafede, ai quali non è parso vero di schierarsi dalla parte del magistrato antimafia, ora al Csm, che ha rappresentato l’accusa nel processo sulla trattativa Stato-Mafia, oggetto di attacchi e delegittimazioni raccapriccianti, pur di sferrare l’attacco definitivo al ministro della Giustizia.

Della contrapposizione tra Nino Di Matteo, comprensibilmente risentito per la mancata nomina al Dap, e il ministro Bonafede – che nel 2018 lo avrebbe preferito in via Arenula accanto a lui agli Affari Penali dopo avergli inizialmente prospettato il primo incarico – si è fatto un capo d’accusa infamante contro il Guardasigilli più odiato in Parlamento dell’intera storia repubblicana: Alfonso Bonafede non avrebbe nominato Nino Di Matteo capo del Dap e gli avrebbe preferito il più defilato e molto meno titolato Francesco Basentini su input dei boss mafiosi.

Il progetto di svergognare senza prove, con l’accusa in aula di cedimento ai diktat dei boss, il ministro della Giustizia che ha portato a casa misure indigeribili come la Spazzacorrotti e la prescrizione finalmente interrotta non è andato a segno, perché nel frattempo, lo scorso sabato, è stato approvato in Consiglio dei ministri il dl Bonafede, per far rientrare in carcere i 376 detenuti in regime di 41 bis o di “alta sicurezza” scarcerati nelle ultime settimane.

Tra i punti più rilevanti del provvedimento c’è la norma che impone ai giudici di sorveglianza di rivalutare entro 15 giorni se sussistano ancora i motivi legati all’emergenza sanitaria, e quella che prevede il coinvolgimento del procuratore nazionale nelle decisioni riguardanti la scarcerazione dei mafiosi, affinché venga tenuto nel dovuto conto il profilo della pericolosità e sia considerato in rapporto con le altre esigenze.

Se alla Camera in un quarto d’ora di intervento Bonafede ha potuto rivendicare le misure per rimediare in tempi brevi alle scarcerazioni forse evitabili con un intervento più tempestivo del Dap – ma non imputabili al ministro della Giustizia, che non può e non deve intervenire sulla decisione di un magistrato – e ha ribadito in modo definitivo che la scelta per la direzione del Dap non fu oggetto di nessuna interferenza diretta o indiretta, all’orizzonte rimane la mozione di sfiducia individuale al Senato chiesta compattamente dal trio Salvini-Meloni-Berlusconi per regolare i conti sospesi, dalla “spazzacorrotti” alla “prescrizione spezzata”.

I numeri al Senato per la maggioranza sono risicati e la convergenza sotterranea, ma nemmeno tanto, con i renziani che già sulla prescrizione reclamavano lo scalpo di Bonafede, pressoché scontata. A scongiurare che tale “sinergia” porti a sfiduciare Bonafede per sostituirlo con un giureconsulto della levatura della Boschi o di Enrico Costa potrebbe essere, più che di qualsiasi altra considerazione, l’avvertimento ai partiti del Presidente della Repubblica che in caso di crisi si va dritti al voto.

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