Il Coronavirus e i suoi slogan. “Io resto a casa” mi ha riportato indietro nel tempo. Era il 1975, avevo 18 anni. Eravamo in cinque in casa. Mamma, mio padre cassintegrato, io e i mie due fratelli più piccoli. Era una casa dignitosa, di 45 metri quadri però. E a me sembrava d’essere in prigione. Ripensandoci, e pensando a chi vive nelle case popolari, mi è venuto in mente di scrivere questa cosa qua.

***

Ho quattordici anni, mi chiamo Marco, faccio la terza media e gioco a calcio. Sono piccolo e veloce, il mio idolo è Ronaldo (però se divento forte come Chiesa a me va bene lo stesso).

In famiglia siamo in cinque. Papà, che adesso è a casa perché fa l’imbianchino, la mamma, pure lei a casa: fa le pulizie per una cooperativa, ma adesso deve allattare Noemi, la sorellina che è nata due mesi fa.

Poi c’è mio fratello Alberto, che fa la quarta elementare. Lui gioca a basket, ma il suo sport preferito è starmi addosso.

Abbiamo un solo computer, io ho il profilo Facebook, ma la mamma mi ci fa stare solo un’ora al giorno, così non posso chattare con i miei compagni di classe e della mia squadra; insomma, mamma vuole che io studi, e, porca zozza, vuole anche che io aiuti mio fratello a fare i compiti. Mamma è triste, dice che non vede l’ora che tutto finisca, papà invece sta zitto, ma è nervoso, non gli si può dire niente. Fuma in continuazione, spalanca la finestra solo quando mamma gli dice che intossica Noemi.

Il mio pallone da calcio è in un armadio nell’ingresso, insieme a quello da basket di Alberto. Il balcone è troppo piccolo, e poi se la palla vola in strada, magari su qualche auto in sosta, son cazzi.

E quindi io resto a casa, tutto il giorno, ma la mia casa ha un piccolo problema: è di cinquanta metri quadri. Anche meno, dice papà. Che fosse di cinquanta metri quadri o anche meno lo so adesso, prima non mi importava. Scuola, oratorio, allenamento. La sera un po’ di Facebook o di tv (solo che non abbiamo né Sky né Netflix, siamo in pochi in classe a non averne almeno uno. Io vorrei tanto vedere la partite della Juve, qualche film…).

Mio fratello è una rottura di palle, soprattutto adesso, perché appena la mamma spegne la luce perché è l’ora di dormire, mi assilla di domande, e poi vuole anche abbracciarmi (dormiamo in sala, in un divano letto) perché ha paura.

Certe notti, quando sentivamo che in camera da letto mamma e papà facevano le “loro cose”, Alberto mi chiedeva: ma che succede Marco? La mamma sta male? Sta bene, sta bene, gli rispondevo. Succedeva un po’ di tempo fa, questo. Ora è diversa anche la notte.

Moriremo tutti? Mi ha chiesto Alberto due giorni fa.
Ma vaffanculo, fammi dormire, gli ho risposto.

Quando Noemi piange e papà ascolta il telegiornale a me viene voglia di scappare. Da quando c’è il coronavirus di notte non riesco a prendere sonno, nemmeno papà ci riesce: dormisse lo sentirei russare. Per me non scopano nemmeno più. Fortuna che Noemi dorme. Rompe le palle tutto il giorno ma di notte dorme.

Papà è l’unico che esce. Va a fare la spesa e a prendere le sue puzzolenti sigarette, io e Alberto, invece, litighiamo per andare a gettare via la spazzatura. Una volta per uno, ha urlato la mamma.

Ieri però papà ci ha detto che dovevamo fare due passi, ma non insieme: prima io e papà e poi Alberto e papà.

Io sono stato fortunato, non ci ha visti nessuno, ma papà e Alberto sono stati fermati dai vigili, che prima gli hanno chiesto dove abitavano e poi gli han fatto una ramanzina, dicendogli che non devono uscire senza un motivo grave; ma mentre i vigili parlavano, da un balcone una signora e poi un’altra ancora si sono messe a urlare, dicendo che papà e Alberto dovevano essere multati e dovevano vergognarsi. Alberto si è spaventato, mamma si è messa a piangere quando papà lo ha raccontato, piange per niente mamma. Non credo che papà ci porterà ancora in giro.

Io resto a casa. Fanculo.

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