Molte persone in questo momento avanzano una domanda semplice: se la Banca centrale europea ha preso l’impegno a comprare quasi mille miliardi di debito pubblico degli Stati dell’eurozona, che bisogno c’è di cercare altre fonti di finanziamento come Eurobond, Coronabond o fondo salva Stati (Mes)?

Economisti e parlamentari da sempre ostili all’euro, come il senatore leghista Alberto Bagnai e i suoi fan, ripetono questa domanda in modo ossessivo su Twitter e giornali e presentano chi ha una risposta diversa dalla loro come servo di qualche potere occulto straniero che non vede l’ora di sottomettere la democrazia italiana alla troika e alla Germania.

Negli anni in cui seguivo la crisi dell’euro, mi è capitato di andare ad Atene con la Commissione europea, ho visto quanto può essere umiliante per un Paese sovrano dover concordare ogni decisione con tecnici inviati da Bruxelles o da Washington. Non è uno scenario che auguro a nessun Paese, men che meno l’Italia.

Anche Mario Monti, considerato (a torto) da tanti no-euro l’espressione dell’europeismo del rigore, di fronte al dilemma concreto ha preferito chiedere al Paese sacrifici e tasse per ritrovare credibilità sui mercati finanziari piuttosto che accettare un finanziamento esterno e la supervisione della troika Ue-Bce-Fondo monetario.

Quindi, sgombriamo il campo: il partito dei fan della troika esiste solo nei deliri complottisti dei fanatici da Twitter. Torniamo ora alla loro legittima domanda: perché non basta la Bce?

Dai dati di marzo sappiamo che la Bce si sta muovendo sul mercato in modo molto politico, non soltanto per tenere bassa l’inflazione (già sotto zero) o per preservare la tenuta della moneta unica, ma per aiutare i Paesi più in difficoltà come l’Italia.

A marzo la Bce ha comprato titoli pubblici e privati per 51 miliardi, il 35 per cento è andato a sostegno di titoli italiani (11,8 miliardi), una quota ben più che proporzionale rispetto alla capital key, cioè alla quota di capitale della Bce di competenza dell’Italia. Tradotto: la Bce ha comprato il 18 per cento di titoli italiani in più che se avesse trattato l’Italia come in tempi normali, alla pari degli altri. Ha favorito anche Spagna e Francia, mentre ha penalizzato la Germania, comprando soltanto il 6 per cento di titoli tedeschi.

Tempi straordinari richiedono misure straordinarie, ma per fortuna i tempi straordinari – prima o poi – finiscono. Come ha spiegato in modo semplice Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, quando i tassi di interesse sono a zero monetizzare il deficit non ha effetti negativi.

Tradotto: esistono due asset, la moneta e il debito emesso dagli Stati, entrambi non pagano interessi, la Bce si limita a scambiare uno con l’altro. Questo è molto utile a evitare crisi di liquidità: le imprese che si trovano senza ricavi a causa del lockdown non hanno cassa per pagare i fornitori e i dipendenti, rischiano di andare in bancarotta, di far fallire i fornitori e ridurre in povertà i dipendenti.

Se lo Stato può emettere debito a basso costo – grazie all’intervento della Banca centrale – poi può girare i soldi all’impresa che salda i suoi debiti e così, quando la domanda riparte, il sistema economico non è collassato. Impresa e Stato avranno più debito, ma l’alternativa è peggiore: meno debito, recessione ancora più grave, imprese che non riaprono e disoccupazione di massa (nota a beneficio dei no-euro più ottusi: il fatto che certe politiche siano indicate nel mezzo di una catastrofe planetaria non è un argomento per dire che andavano bene anche prima, per finanziare mance elettorale, sprechi e spesa clientelare).

Nel breve periodo, quindi, l’intervento della Bce è almeno in parte efficace. Ma nel medio-lungo?

Se le nostre economie usciranno dall’emergenza attuale, diciamo tra un anno, prima o poi gli acquisti virtualmente illimitati della Bce dovranno ridursi. O almeno torneranno entro i limiti precedenti. A quel punto o l’Italia avrà ritrovato una traiettoria di crescita che renda il debito sostenibile (non significa ripagarlo, ma generare aumenti di Pil che permettano di far fronte alla spesa per interessi senza che questa generi altro debito in un effetto valanga), oppure il problema esploderà: gli investitori che devono rifinanziare il debito in scadenza inizieranno a pretendere tassi di interessi correlati al nostro livello di rischio, quindi molto elevati, e in un attimo ci troviamo in uno scenario simile alla crisi del 2011.

Prima della crisi attuale, l’Italia era l’unico Paese europeo che i mercati vedevano avviato su una china pericolosa, perché il suo tasso di interesse effettivo sul debito – 2,7 per cento – non solo era il più alto della zona euro, ma anche superiore al tasso reale di crescita dell’economia. E questo lascia due spiacevoli alternative: accumulare avanzi primari (entrate meno uscite prima di aggiungere gli interessi) abbastanza alti da garantire la sostenibilità, oppure rassegnarsi all’effetto valanga e alla spirale di declassamenti del debito, aumenti degli interessi e così via fino all’inevitabile ristrutturazione, cioè una insolvenza almeno parziale.

La Bce non può continuare all’infinito con i suoi acquisti attuali? Sì e no. Se continua all’infinito perché le nostre economie non riescono a superare la crisi da Covid, ci troveremo in una depressione in cui lo Stato continuerà a indebitarsi a basso costo, a immettere liquidità in un’economia devastata nella quale prima o poi potrebbe partire una spirale inflazionistica del tipo peggiore, innescata dalla scarsità di beni e non dalla crescita surriscaldata (immaginate i picchi di prezzo che abbiamo visto per le mascherine replicati su altri prodotti, dalla farina ai ricambi per auto).

Se invece la Bce continuerà a monetizzare il deficit in una fase di ripresa, si innescherà l’inflazione da surriscaldamento dell’economia. Sembra uno scenario implausibile oggi, ma basta che l’economia riparta in modo selettivo in alcuni Paesi meno colpiti – tipo la solita Germania – perché comincino le pressioni su Francoforte per alzare i tassi di interesse. Non soltanto per evitare l’inflazione, ma anche per remunerare risparmi e investimenti, oltre che per garantire la sopravvivenza del sistema bancario (che in tempi di interessi a zero vede il proprio business model paralizzato).

Non c’è nessuna prospettiva di aumenti di tassi di interesse a breve, ma usare la Bce come unico veicolo di risposta alla crisi significa legarle le mani per il futuro e dunque renderla meno efficace nella capacità di gestire le aspettative dei mercati. E quindi, in ultima analisi, come scudo per l’Italia.

C’è poi un problema contingente: anche con gli acquisti della Bce attuali, l’Italia continua a pagare il suo debito quasi il due percento in più della Germania: neanche la Bce ha cancellato gli spread, e il 2 per cento in più in questo contesto è parecchio. Inoltre aiutare le imprese attraverso la filiera delle emissioni di debito pubblico, per quanto sostenute dalla Bce, rischia di non essere lo strumento più efficace. La Bei, come hanno proposto Markus Brunnermeier e altri economisti, potrebbe far arrivare risorse direttamente alle imprese senza passare dallo Stato e dal sistema bancario.

E quindi arriviamo alla necessità di un intervento europeo coordinato. Che prenda la forma di Eurobond, Coronabond o Mes, avrebbe vari vantaggi.

1. Primo: si potrebbero finanziare progetti che aumentano la crescita del Paese al di là di quello che il singolo Stato può fare da solo, rendendo così il suo debito più sostenibile nel lungo periodo. E non parlo delle solite grandi opere inutili, ma – per esempio – di investimenti paneuropei in ricerca e sviluppo in campo biomedico (oggi ci sarebbe grande consenso) o per rendere strutturale la svolta verso il telelavoro cui ci ha costretto il virus. Con il solo appoggio della Bce, l’Italia può emettere debito ma questo non basta per realizzare progetti di respiro europeo che legittimano una copertura finanziaria europea.

2. Secondo: Un coinvolgimento di tutti gli Stati dell’Ue – anche oltre i confini dell’Eurozona – in questa fase darebbe un forte messaggio politico a cittadini e investitori. La crisi è un problema continentale con una risposta continentale, la condivisione di responsabilità in questo momento implica un impegno condiviso anche per il futuro, gli Stati che ora avallano interventi in deficit poi non contestano l’aumento del debito quando la situazione sarà tornata alla normalità.

E dunque non lasceranno che un Paese – l’Italia – possa trovarsi schiacciata dal peso degli interessi. Vi sembrano cose teoriche? Eppure è da queste percezioni che dipendono le valutazioni sul rischio-Paese, i credit default swap, lo spread e quindi, in ultima analisi, il costo del debito pubblico.

3. Terzo: Il Mes, o entità analoghe, possono emettere debito a lunghissima scadenza, fino a 35 anni, con rating tripla A e tasso vicino allo zero, mentre l’Italia non ha questa possibilità neppure ora con il sostegno della Bce. Usare il Mes o strumenti simili porterebbe ad allungare la vita media del debito – oggi intorno a 7 anni – e questo è un aiuto prezioso (perché offre flessibilità e sicurezza). Secondo le simulazioni di Aitor Erce, Antonio Garcia Pascual, Ramon Marimon su Voxeu, le combinazioni di intervento tra Bce e Mes possono ridurre gli interessi cumulati che l’Italia dovrà pagare nei prossimi dieci anni da 898 miliardi fino a 640. Una differenza significativa.

4. Quarto: la Bce è un ente con grande capacità di manovra e reazione, ma questi superpoteri derivano dal fatto che ha un mandato limitato. Se la Bce diventa un braccio della politica fiscale, allora i cittadini dovrebbero avere voce in capitolo sulla sua azione. E poiché la Bce è di tutti – inclusi tedeschi e olandesi – ci troveremmo daccapo, cioè in minoranza.

Più competenze si attribuiscono alla Bce, più viene snaturata e più preoccupante deriva affidare decisioni discrezionali a un ente che non risponde in modo diretto ai Parlamenti (e se il mese prossimo la Bce compra la metà dei titoli italiani facendo salire lo spread? O se privilegia gli aiuti alla Francia? La discrezionalità ci piace solo quando siamo noi a beneficiarne). La politica fiscale dovrebbe tornare là dove deve stare, cioè dove si prendono decisioni politiche, e se la Commissione non ha gli strumenti per impostare una vera politica di bilancio comunitaria è ora di darglieli.

5. Ultimo punto. E’ vero, come ricorda sempre il senatore Bagnai, che l’articolo 136 del Trattato di funzionamento dell’Ue prevede dal 2013 che “La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità“. Ma la condizionalità può essere anche soltanto quella di usare le risorse europee per progetti condivisi e relativi alla lotta al virus – quindi no grandi opere inutili, niente riforme delle pensioni per compiacere il proprio elettorato, niente mance – e su quello andrebbe tenuta una posizione ferma nel negoziato.

Chi dice che condizionalità significa necessariamente fare la fine della Grecia, detto in parole semplici, mente sapendo di mentire. Ci sono altri Paesi, come Spagna, Portogallo e Irlanda, che hanno negoziato condizioni migliori, hanno avuto il supporto e sono usciti dalla crisi del 2008-2011 in uno stato di salute molto migliore di quelleodell’Italia pre-Covid.

La scelta non è tra condizionalità e regali, come certa propaganda Twitter vuole far credere. Ma tra condizionalità e discrezionalità, cioè tra decidere quali regole vogliamo rispettare per ottenere in cambio una condivisione dei nostri destini (oltre che finanziamenti agevolati) e affidarci invece al consiglio direttivo della Bce. Con la consapevolezza che, se mai le cose dovessero tornare alla normalità, dipendere soltanto dalla liquidità della Bce sarebbe una cessione di sovranità non inferiore ad aver negoziato un intervento del Mes o di altri strumenti comunitari.

Nell’approccio oltranzista che i no-euro da Twitter rivendicano – o la Bce o niente, o gli Eurobond senza condizioni o niente – c’è sempre il solito ricatto implicito: dateci i soldi senza condizioni o da questa Europa ce ne andiamo e la facciamo crollare. L’ultimo che ha tenuto questa linea è stato Yanis Varoufakis nel 2014, il ministro greco che ha condotto negoziati disastrosi che non hanno aiutato il suo Paese ma molto bene hanno fatto alla sua carriera personale, tra libri, ospitate e celebrità internazionale.

L’Italia, anche in questo momento, dovrebbe ambire a qualcosa di più che diventare un perdente di successo.

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