Alberto Arbasino, addio. No, per fortuna no. I tuoi libri restano eccome, ieri ho cominciato a rileggere Le piccole vacanze (1957) e sfogliato molte pagine del magnifico Fratelli d’Italia (1963, nella prima edizione). Sopravvivere con le opere è l’unica missione di uno scrittore, guadagnare cioè la memoria (dunque la stima) di chi verrà poi, lungo il percorso dell’umanità. Eppure, detestavi l’idea di essere diventato ormai un venerabile “maestro” della letteratura italiana, anche in virtù dell’età – novant’anni compiuti il 22 gennaio scorso. E dell’aver fatto parte del mitico e discusso Gruppo 63, con Umberto Eco, con Nanni Balestrini, con Luciano Anceschi, il filosofo, con Nanni Filippini (che fu il mio dirimpettaio di scrivania a Repubblica), con Achille Perilli, il pittore: eh sì, il Gruppo 63 vantava uomini di penna e di pennello…

Con Alfredo Giuliani, anche. L’avresti ritrovato a Repubblica dove hai scritto fin dal primo numero, uscito il fatidico 14 gennaio del 1976. Dove Alfredo recensì con sperticate lodi Fratelli d’Italia definendolo “un metaromanzo che contiene in sé tutte le possibili istruzioni per l’uso di se stesso e di tutti gli altri romanzi… una folle rincorsa vincente al Ritardo Storico e alla Vita Perduta, con incroci e recuperi di ogni sorta, di idee e di oggetti, operazioni di accumulo e mistificazioni spesso esilaranti che ha forse il solo precedente, ma tutt’altra chiave stilistica e filosofica, in Musil…”, e io credo che invece abbia molto anche di Proust, poiché quella di Arbasino – in quel romanzo e dopo soprattutto nei suoi straordinari reportage dedicati a mostre, prime d’opera, serate salottiere a Parigi, Londra, New York, persino Buenos Aires – era una costante ricerca del passato nel presente attraverso sterminate contaminazioni di minuziosi quanto preziosi dettagli. Non solo. Percorrono il libro paure, terrori, disperazioni sia pure “in positivo”, come ha sottolineato Angelo Guglielmi, “che ci hanno accompagnato per tutti gli anni Sessanta, dai quali oggi vogliamo uscire”.

E tuttavia sono convinto che avresti arricciato leggermente il naso, arcuato un poco le sopracciglia in segno di pacato ma fermo dissenso, dinanzi al fiorire di “ritratti” che somigliano a sviolinate, visto che molti ti hanno amato ma anche che molti ti hanno detestato, ma nessuno si è azzardato nel ricordarlo, come si conviene per tradizione e consuetudine, quando scompare un grande personaggio. Temevi, non per snobismo, d’essere etichettato come un “intellettuale che ha arricchito l’Italia con il suo talento” (Sergio Mattarella che non ha resistito nell’aggiungere “e la cultura ne farà tesoro”), perché queste sono parole che si dicono sempre, in certe circostanze. Infatti si dice che sono parole di circostanza…

Una volta, a pranzo – eravamo coinvolti in un servizio per Repubblica, in Liguria – mi confessasti che ti infastidivano la banalità e i riti di passaggio di una società superficiale, affannata, maleducata. E ignorante. Qualcuno aveva scritto di recente che Arbasino, in fondo, era uno scrittore barocco, per via di certe ridondanze nelle descrizioni e nelle digressioni. Gli rimproveravano l’eccesso di citazioni, quasi fosse compiaciuto di esibire la propria immensa erudizione, che avrebbe appesantito la scrittura, e lui mi spiegò che le citazioni era un modo di far romanzo, una trama nella trama, e che dargli dello scrittore barocco non lo soddisfaceva, perché pensava piuttosto d’essere uno scrittore espressionista. Lo ripeterà più volte, in varie interviste. L’espressionismo, dichiarò, “non rifugge dall’effetto violentemente sgradevole, mentre il barocco lo fa”.

Sgradevole, è ovvio, per chi si accontenta di spazzatura letteraria… o di quella tv pattumiera che infligge il lavaggio del cervello, o di quel che ne resta nel cranio della gente. Semmai, amava considerarsi un colto testimone di un particolare momento storico, e del costume di quel tempo. Lo fa sistematicamente. Addirittura si impone di aggiornare, aggiustare, correggere, riscrivere Fratelli d’Italia, un’esigenza provocata dalla consapevolezza che “ogni libro nuovo, veramente moderno, di quest’epoca (di quale epoca?) sarà così profondamente ambiguo, così polimorfo, così com’è ambigua e polimorfa l’epoca da raccontare in realtà alcune storie sempre fingendo di raccontarne tutt’altre, anche molto diverse?”.

Curiosità, dubbi, disincanto. Regole inevitabili, come le zanzare d’estate che infestano la Bassa vogherese, sua terra natìa, fonte primaria dei suoi esordi, quando scriveva con brillante ma rigoroso estro gli sperperi sentimentali e le “infanzie favolose” (dove il suffisso “ose” ricorre come una condanna: deliziose, meravigliose, impetuose, noiose…) delle ultime villeggiature “lunghe” in campagna, e delle prime vacanze “brevi” al mare…

In verità, proprio la rilettura dei primi romanzi (che sono pure saggi e zibaldoni onnicomprensivi) dimostra che Arbasino si è spinto oltre gli orizzonti pur vasti della letteratura. Era di più. Era incontenibile, ma mai distratto, mai rigido. La sua visione del mondo era assai flessibile, radicale e spregiudicata. Narrava un popolo “in ritardo”, in smaniosa rincorsa del resto del mondo che stava sempre più avanti, illudendosi d’averlo raggiunto. Magari esternando atteggiamenti volgari da parvenu, stappando champagne “della migliore cuvée”, o esibendo bottiglie di whisky scozzese invecchiato una vita sui tavoli dei night-club per far capire agli altri (e alle altre) quanto valevi, o sbeffeggiare la contessa de Biquet che “viaggia solo in cabriolet”.

Fa tesoro del passato vissuto a cavallo della guerra, nei racconti d’esordio emerge già la vena frivola e leggera mentre rievoca sfollamenti nelle località delle terme ormai vecchie e cadenti, o s’inoltra alla scoperta di ville sepolte fra alberi e siepi di bouganvilles, le vigne in collina, le cantine sociali, le osterie umide… il cambiamento di regime, il ritorno alla libertà magari si percepisce nella moda dlagante e ancora borghese delle lezioni d’inglese perché ormai il francese… e intanto, si diverte a rievocare canzoni del Novecento, orchestrine costrette a suonare ritmi sincopati e melodie struggenti, corse in automobile, o a farci entrare in studi di notai facoltosi, o ascoltare il “chiacchiericcio” ai tavolini dei caffè, o i consigli di avvocati che sanno sempre tutto. Ci ritroviamo anche noi a camminare insoddisfatti lungo strade desolate di cittadine provinciali, e sappiamo che gli studi universitari sono approssimativi, perché il dopoguerra incombe e bisogna ritornare in fretta alla normalità, ma col passo dei nuovi tempi, ed ecco quindi incontri e scontri con ragazzine spudorate e “svampite”, l’esplorazione del sesso, primi amori primi dolori adolescenziali…

L’irruenza creativa sboccia irrefrenabile si materializza in Fratelli d’Italia, il più spietato e preciso ritratto di quell’Italietta a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e il turbolento inizio degli anni Sessanta. Il filo del racconto è il Grand Tour di due giovani omosessuali che corrono da una capitale all’altra del Rinascimento, dalle città simbolo del boom, dalle élitarie località dei festival, toccando le metropoli europee e i loro riti avanguardistici. Il cosmopolitismo di Arbasino tracima oltre gli argini dell’immaginazione. Sbalordisce la mirabolante accuratezza dei dettagli, di piccole storie nella storia (una per tutte: la vicenda di Anton Webern, uno sventurato compositore perseguitato dai nazisti, “una grande tragedia tedesca”, uno dei “grandi morti del nostro tempo”, un eroe intellettuale, ucciso da un soldato americano nel settembre 1945, episodio ricostruito dopo anni di investigazioni quasi impossibili da un musicologo americano di origini tedesche, Moldenhauer, che ha “svolto una grande quest alla Henry James però con metodi da Raymond Chandler: e, per cominciare, ha ricostruito attraverso gli archivi della Difesa degli Stati Uniti tutti i movimenti di truppe intorno a Mittersill nell’autunno del ‘45…”).

Ogni pagina, così. Una smisurata affascinante travolgente navigazione con obiettivo grandangolare, e zoom su dettagli che sono storie e che conducono ad altre vicende, in incroci infiniti, in cui ti infili e non vuoi più uscire. Un’ “avventura linguistica totale”, struttura e stile spiazzanti, anticonformisti. Scrittura raffinata, elegante, irriverente. Come lui. Arbasino era come scriveva. Parlava come scriveva. Pensava come scriveva. Ero un ragazzo curioso e già convinto che “da grande” avrei fatto il giornalista e chissà, anche lo scrittore, quando lessi sul Giorno – il quotidiano preferito di mio padre che comprava anche il Corriere della Sera e la Stampa – un articolo di Arbasino che invitava gli intellettuali italiani a fare una gita a Chiasso. Bastavano pochi chilometri da Milano, la cosiddetta capitale culturale italiana, per annusare oltre confine un’aria – culturale ovviamente – ben diversa, più “moderna”, bastava poco per allargare il proprio miope sguardo e individuare cosa si produceva nel resto d’Europa. L’ambizione di Arbasino era sprovincializzare l’Italietta. E ci provò con reportage sontuosi. Ma dove traspiravano intelligenza, ironìa, gusto dell’osservazione e parodia degli eccessi.

O lo ami o lo detesti. Ma se lo ami, viaggi con lui ovunque, e impari. Scopri. Ricordi. Stupisci. Sorridi. Ti disperi. Ti arrendi. Ti ribelli. Sperimenti.

Già.

Sperimenti la magia delle parole. Che, com’è noto, possono fare incazzare un sacco di gente (ma questa è una citazione di Nanni Balestrini).

Ps: istruzioni per l’uso. La neoavanguardia del Gruppo 63 contestava la “cultura alta” del tempo, gli scrittori tradizionali dell’establishment e i “maestri” che l’editoria aveva creato. Per intenderci, Edoardo Sanguineti definì Bassani e Cassola “le Liale del nostro tempo”. Per sfottere i guru del potere culturale e polemizzare contro “il romanzo ben fatto”, il Gruppo 63 decise di assegnare il Premio Fata, contrapposto al Premio Strega, dedicato al romanzo più brutto. Vinse, si fa per dire, Pasolini. Nemici dell’etichetta, dell’estrema educazione e dell’incensamento reciproco (l’autodifesa della piccola comunità letteraria), gli avanguardisti “in vagone letto” (copyright Umberto Eco) del Gruppo 63 non avevano come scopo la scalata al potere letterario o l’arroccamento per difendere la corporazione avanguardista. Tutti avevano un buon lavoro, molti alla Rai. I tradizionalisti non avrebbero mai accettato, come invece facevano quelli del Gruppo 63, di accettare pubbliche critiche fatte dai colleghi. Almeno, così successe all’inizio. Poi il Gruppo si sciolse nel 1969. E ognuno andò per la sua strada. Senza rinnegare il tratto percorso assieme.

Suggerisco di leggere oltre al monumentale Fratelli d’Italia, Le piccole vacanze e l’Anonimo Lombardo, ma anche Super-Eliogabalo (1969), Parigi o cara, Paesaggi italiani con zombi, La vita bassa. Italo Calvino incoraggiò Arbasino, che amava moltissimo Gadda a cui dedicò L’ingegnere in blu (2008). Dulcis in fundo, l’opera omnia nei due volumi della collana I Meridiani (2010) con bella prefazione di Raffaele Mantica.

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