Secondo quella regola logica definita modus tollens, il coronavirus è di fatto un argomento che confuta o falsifica l’ordinario, la normalità, la consuetudine. Se da A si deduce B, e se B, a causa del coronavirus, risulta falso, allora è falso anche A. In ragione di questa regola il coronavirus ci dice ad esempio tre cose: che il regionalismo differenziato è una assurdità, che i nostri ospedali sono da ripensare e che dobbiamo riflettere sull’importanza dei rapporti sociali a proposito di malattie.

L’idea che su questo blog ho a più riprese criticato, ovvero quella del regionalismo differenziato, con il coronavirus entra in crisi: tutti hanno capito che un’epidemia pretende che ci sia una regia nazionale, una operatività guidata da istruzioni nazionali. Abbiamo visto che quando le Regioni prendono iniziative autonome combinano solo guai. Non solo: se la salute è una questione a metà strada tra tutela sanitaria e protezione civile, è evidente che si ha una complessità politica tale che chiama in causa in primo luogo le decisioni del governo.

Nei confronti del coronavirus, la nostra sanità si è rivelata impreparata, in particolare i medici di famiglia e gli ospedali in prima linea sono stati costretti a fare i salti mortali, a reinventarsi forme estemporanee di organizzazione in tempo reale alla faccia di tutte le normative in vigore. Soprattutto quelle che regolano l’ospedale. Basti pensare alle tende davanti ai nosocomi e alla crisi di tutte le attività elettive che normalmente si svolgono nelle strutture. Per non parlare della mancanza di aree protette per non intasare le rianimazioni, ecc.

Clamorosa è la grande contraddizione rappresentata dall’ospedale di Codogno che – a causa della colpevole impreparazione di Regione Lombardia e a causa della totale disponibilità degli operatori che non si sono risparmiati – è diventato paradossalmente il principale focolaio lombardo dell’epidemia. Che l’ospedale di fronte a una epidemia diventi il suo focolaio non è una contraddizione da poco. Che di fronte a una epidemia non si pensi in primo luogo a proteggere chi la dovrebbe combattere non mi pare una dimenticanza da poco.

Ma, a parte questo, il coronavirus ha messo in crisi quel regolamento che ancora oggi definisce gli ospedali (Dm 70), facendo emergere le debolezze di una politica definita in questi anni di “deospedalizzazione” e che ha comportato la dismissione di oltre 40.000 posti letto. L’emergenza ha messo a nudo i limiti di una logica che, pur occupandosi solo di posti letto, non prevede a partire dall’organizzazione dell’emergenza e dei pronto soccorso la possibilità dell’eccezione. Certo, di epidemie non se ne hanno tutti i giorni ma molto prima del coronavirus sapevamo tutti che i nostri pronti soccorso erano delle trincee e dei luoghi di disperazione tanto al nord che al sud: il virus è solo l’ultima mazzata.

Insieme alla crisi economica, al terrorismo, ai terremoti, al cancro, alla povertà, l’epidemia ha spaventato le persone e la paura ha finito per uccidere la libertà. I supermercati presi d’assalto, persone che portano inutilmente le mascherine, treni e aerei bloccati, scuole chiuse, un’intera economia sospesa con danni incalcolabili. La paura sul piano individuale spinge a “non fare” per minimizzare i rischi, a non viaggiare, a non uscire di casa, in breve, spinge a non fidarsi della normalità e ad accettare di vivere in un regime di precauzioni, di controlli, di limitazioni pur di sentirsi “al sicuro”. La sicurezza a scapito della libertà.

La “paura fa paura” e, parafrasando Pascal, l’unico modo per andare avanti è di pensare alla paura senza pensarci. Ma in una epidemia ci si pensa eccome e diventa un’ossessione.

Colpiscono, a questo proposito, le contraddizioni della comunicazione. Per esempio gli spot che invitano all’aiuto reciproco, alla solidarietà, e in parallelo il messaggio martellante che invita le persone a guardarsi dalle persone, a evitare loro di stringere la mano, a non stare troppo vicini. Da una parte i cittadini sono invitati a fare comunità e dall’altra la comunità si disgrega con l’isolamento, la separazione forzata, la quarantena. Si dice “insieme ce la facciamo” ma poi ogni idea di riunione, di assembramento, di adunanza, viene bandita.

Con la paura del virus si dimenticano le violenze contro gli operatori, i medici tornano ad essere dei santi e il sistema sanitario pubblico diventa irrinunciabile. Davanti all’emergenza non ci sono più liste di attesa: tutto è in tempo reale, trionfa l’immanenza. Quando tutto sarà finito la paura lascerà probabilmente il posto di nuovo alla libertà e probabilmente torneranno le violenze contro gli operatori, i medici torneranno ad essere considerati delle nullità, il sistema pubblico arrancherà come sempre. Il privato si farà di nuovo sotto con le sue speculazioni e le Regioni tornano a pretendere più potere. I pronti soccorso torneranno nel caos e i malati presumibilmente saranno trattati di nuovo a pesci in faccia.

Dal coronavirus c’è molto da imparare, se non imparassimo niente sarebbe davvero un gran peccato. Esso non è una malaugurata quanto accidentale parentesi. Vi è una società microbica in guerra contro una società di umani. E’ una guerra che è sempre esistita e continuerà ad esistere.

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