Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha segnalato che probabilmente all’ospedale di Codogno qualcosa non ha funzionato; i vertici della regione Lombardia hanno immediatamente reagito con grande durezza. La polemica si è chiusa con inusitata rapidità: uno aveva da far dimenticare il mancato controllo su chi dalla Cina arrivava in Italia transitando da un Paese terzo, gli altri non potevano permettere che fosse messa in discussione la tanto celebrata sanità lombarda.

Ma, andando oltre le schermaglie politiche, è fondamentale capire se qualcosa veramente non ha funzionato nel servizio sanitario lombardo, accreditato da più parti come il migliore ed il più efficiente della penisola.

1. A distanza di diverse settimane dalla notizia della comparsa del Coronavirus, quando già si conoscevano le vie di trasmissione, non può essere considerato normale il fatto che tra le persone contagiate dal famoso trentottenne di Codogno, vi siano degli operatori sanitari che lavoravano nell’ospedale di Codogno. Né può essere considerato “normale” il contagio di pazienti già ricoverati per altri motivi in strutture ospedaliere. Le indicazioni dell’Oms sulle precauzioni universali e i protocolli da rispettare per gli operatori sanitari sono molto chiari.

E’ sterminata la letteratura sull’obbligo dell’uso dei DPI, i dispositivi di protezione individuale (non solo di adeguate mascherine) da parte del personale sanitario, sulle modalità di accoglienza, di ricovero dei cittadini con patologie sospette e sulla gestione della sicurezza sanitaria nelle strutture ospedaliere. Misure da adottarsi quindi non solo di fronte ad un paziente già fornito di diagnosi.

2. Tardive sono state le indicazioni, rivolte a chi temeva di essere stato infettato, di non recarsi nei Pronto Soccorsi, né nello studio del proprio medico curante per evitare di trasformare quei luoghi di cura in luoghi di malattia. Si è aspettato il caso Codogno prima di diffondere a tamburo battente i numeri di telefono da contattare e le indicazioni di non recarsi al pronto soccorso. Ma ormai “i buoi erano scappati”.

3. I medici di famiglia sono stati completamente abbandonati a se stessi dalla Ats (il nome delle Asl in Lombardia) di Milano (e non solo) mentre in una condizione di enorme stress erano sommersi da ogni tipo di richiesta. Per vari giorni non sono state loro fornite nemmeno le mascherine; hanno dovuto cercarsele da soli spesso senza riuscire a trovarle. Eppure la tutela della salute degli operatori sanitari rappresenta un patrimonio sociale fondamentale della collettività per garantire assistenza e cura a tutti. Ma Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, la scorsa estate quando era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, aveva dichiarato “ma chi va più dal medico di base? Quel mondo è finito”. Chi governa la Lombardia sembra muoversi su questa linea.

4. I dispositivi di protezione individuale (DPI) sono arrivati con grande ritardo anche in molte strutture ospedaliere e spesso distribuiti con criteri incomprensibili; ad esempio, a quanto mi è stato segnalato, in alcuni casi il personale addetto al trasporto interno dei malati non è stato munito di mascherine: i lavoratori non sono dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale ma di una cooperativa alla quale è stato esternalizzato il servizio.

5. L’aver indicato, a livello nazionale, il 112 come numero di riferimento è stato un grave errore, migliaia di telefonate per avere informazioni sul Coronavirus hanno intasato un numero dedicato alle emergenze creando conseguenze drammatiche per cittadini con altre gravi urgenze sanitarie. Quando finalmente in Lombardia è stato attivato un numero telefonico dedicato, ben presto questo è risultato difficilmente raggiungibile per l’alto numero di telefonate e per il basso numero di operatori.

6. Diversi medici ospedalieri sono sottoposti a turni massacranti in attesa di un cambio turno che non arrivava. Mentre nessuna autorità regionale ha ritenuto di obbligare le strutture sanitarie private a mettere a disposizione della collettività le proprie competenze e il proprio personale medico; eppure la sanità privata è destinataria di somme ingenti da parte della Regione. Ma la tutela della salute pubblica, non le riguarda, e nessuno sente il dovere di chiedergliene conto.

7. In questi giorni sono stati cancellati da parte delle strutture sanitarie pubbliche una grande quantità di visite ed esami già prenotati anche con codice d’urgenza e relative ad altri settori della medicina non coinvolti nella vicenda Coronavirus, come risulta ad esempio ai microfoni di “37e2”, la trasmissione sulla salute di Radio Popolare. Chi economicamente poteva si è rivolto alla sanità privata che sta traendo ulteriori guadagni da questa situazione.

In un mondo globalizzato non era difficile prevedere che il Coronavirus sarebbe arrivato anche in Italia e in Lombardia, la regione più inserita nelle rotte internazionali. C’è stata una “finestra di opportunità”, questo il termine utilizzato dall’Oms, tra la scoperta del virus in Cina e la sua comparsa in Occidente: un’opportunità formidabile per organizzare al meglio la risposta evitando di farci trovare impreparati.

La responsabilità di quanto accaduto non può essere semplicemente scaricata sui singoli medici ed operatori sanitari. Le responsabilità vanno soprattutto ricercate nei vertici della Regione e nei direttori generali della varie Asl e dei vari ospedali verificando se hanno programmato ed attivato quanto previsto dalla normativa nazionale ed internazionale e quanto è stato investito in questo ambito.

Queste carenze non sono casuali e limitate alla vicenda Coronavirus. Oggi in Lombardia esiste la possibilità di curarsi con le migliori terapie disponibili al mondo, di essere operati da equipe con professionalità di altissimo livello (anche se spesso il portafoglio fa la differenza), ma i servizi di prevenzione sono ridotti al minimo, i pronto soccorsi sono quasi tutti in condizioni fortemente critiche, i medici di base scarseggiano, gli ambulatori territoriali vengono ridotti di numero mese dopo mese.

Un sistema sanitario concentrato solo sulla cura e sul profitto, che ha trasformato la salute in una merce, che ignora la prevenzione perché non produce guadagni per le lobby private del settore e che non coinvolge la popolazione nella tutela della propria salute individuale e collettiva mostra il suo tallone d’Achille di fronte ad una nuova patologia infettiva di facile trasmissibilità.

Ora concentriamoci per limitare gli effetti del Coronavirus; ma nel prossimo futuro sarà inevitabile rimettere in discussione le priorità e l’organizzazione del nostro Servizio sanitario.

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