“La morte è bianca o nera? Esiste il concetto di dissolversi nell’oscurità, ma anche quello di essere trascinati verso la luce. La morte è calda o fredda? Il cadavere è freddo, ma com’è l’anima che abbandona il corpo? Alle elementari pensava sempre alla morte prima di andare a dormire. O meglio, non riusciva a pensare ad altro che alla morte. Non le sarebbe dispiaciuto morire in quel momento se tutto il resto del mondo fosse scomparso insieme a lei. Ciò che la spaventava della morte era che, a distanza di anni, di lei non sarebbe rimasta alcuna traccia.”

Il paese dei suicidi, dell’autrice giapponese di origine coreana Yu Miri (traduzione e postfazione di Laura Solimando; Atmosphere Libri), è un romanzo che tratta temi che escono dai confini nipponici per raccontare un malessere globalizzato. È la storia di Mone, un’adolescente delle scuole superiori, segnata da un’esistenza legata a eventi traumatici che, ignorata dalla madre e cancellata dal gruppo delle amiche, scopre in Internet un forum dove può chattare con persone di ogni età e strato sociale accomunate dal desiderio di cercare compagni con cui suicidarsi.

La mancanza di appartenenza e di identità, la dicotomia vita-morte che permea ogni riga, la solitudine estrema dei personaggi, ognuno di essi circondato da esseri umani che è come non ci fossero, il mascheramento dei propri sentimenti, la critica feroce alla società giapponese che riconosce affetto e gratificazione solo per quegli individui che raggiungono risultati e performance positive, il bullismo scolastico che porta all’esclusione dalla comunità, il positivo visto sempre sotto forma di ricordo. Sono tante le tematiche affrontate da Yu Miri in questo veloce e sincopato romanzo, dove emerge un’affermazione forse nichilista, sicuramente estrema: più si è vicini alla morte, più ci si sente vivi.

<“La battaglia si avvicina come le acque di un fiume in piena. In ogni angolo del cortile si ode senza tregua il suono del ferro che viene battuto, l’eco dell’acciaio che viene forgiato, la voce dei martelli, l’eco delle lime. Anche William si prepara al combattimento per non essere inferiore agli altri, ma ogni tanto, chiudendo le orecchie al frastuono feroce delle armi, sale sulla torre d’angolo e fissa lontano, verso il castello del Corvo Notturno. In quel paese la nebbia è fitta e anche se nulla ostruisce la vista, nei giorni di bel tempo non si riesce a vedere ciò che sta a venti miglia di distanza.”

Racconti sospesi nel vuoto, di Natsume Soseki (a cura di Andrea Maurizi e Marco Taddei; Atmosphere Libri), raccoglie sette racconti diversi tra loro per ambientazione e contenuto, ma che trovano nell’elemento dell’ipnosi (e della suggestione) ciò che li accomuna. Mondi rurali minacciati dall’urbanizzazione, pratiche tradizionali che si scontrano con il positivismo del mondo moderno, influenze, a volte violente, tra la cultura giapponese e quella occidentale.

Natsume Soseki trae ispirazione dalla sua permanenza a Londra e dalle letture sull’analisi psicologica del subconscio che stava esplodendo in Europa a inizio Novecento per scrivere di apparizioni e di ereditarietà durante la guerra russo-giapponese, trasposizioni in stile moderno del ciclo bretone con cavalieri nostalgici dall’intuito telepatico, regno di morti dentro alla torre di Londra dove è possibile rivivere, in modo vivido, l’esecuzione di Lady Jane Gray. Lo stile è criptico, cupo, a tratti fantastico, imperniato di ascendenze letterarie differenti che conducono tutte all’allucinazione, lo spiritismo, all’ipnosi e a fenomeni paranormali.

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