Quando una band di rilievo si affaccia nuovamente sulla scena, mette in conto di finire alla mercé dei duri e puri, rea – dicono – di non avere tenuto fede alle aspettative di coloro che vorrebbero riportare la musica indietro ai bei tempi che furono, anziché lasciare che vada avanti.

Problema questo che affligge più di ogni altra espressione musicale il genere rock, che negli ultimi 30 anni continua a vivere non certo distinguendosi per originalità, bensì ringraziando i soliti noti: è così che a primeggiare in classifica e a far registrare i maggiori introiti, specie dal vivo, sono sempre Metallica, Guns N’ Roses, U2, Rolling Stones e pochi altri.

E non citando l’infinita serie di reunion o tour d’addio che poi finiscono per non essere mai tali. Nel mezzo di questa fortunata operazione nostalgia si collocano i Pearl Jam, ai quali tutto si può rimproverare fuorché di essersi mossi esclusivamente per il vil denaro: loro, che all’apice del successo decisero di muovere contro Ticketmaster, e che non hanno mai abusato del concetto di singolo o videoclip.

È successo che i Pearl Jam hanno annunciato un nuovo album (Gigaton) e che da questo hanno tirato fuori una canzone – la prima – Dance Of The Clairvoyants, che “ruba” un po’ ai Talking Heads se non al David Bowie di Let’s Dance. Non sia mai.

Quando nel rock un synth sovrasta una chitarra, qualcuno deve certamente delle spiegazioni. Piovono quindi commenti, e parte il prevedibile, quanto noioso, “chi ha copiato chi”: come se il rock stesso non fosse a sua volta un genere derivativo e i Pearl Jam dovessero giustificarsi di avere, ancor prima che delle influenze, degli “ascolti del momento”.

Se la musica, come quella che ha cresciuto generazioni di fan e che ha accompagnato le principali rivoluzioni e accadimenti degli ultimi 50 anni, deve esistere in relazione alla sua prevedibilità, allora abbiamo perso tutti.

Se cantare l’orrore della guerra e la gioia per la caduta del muro di Berlino ci ha ridotti a pesare gli ingredienti, dovremmo farci delle domande: contando tra l’altro la sequela più o meno infinita di dichiarazioni, rese da illustri esponenti del genere, che decretavano la morte non della categoria – di cui sarebbero tuttora rappresentanti -, bensì la fine proprio delle chitarre.

Ma se il rock è un’attitudine, non sarebbe bene lavorare affinché torni a innovarsi? Ringraziare sì i padri costituenti, ma far sì che, a poco a poco, lascino spazio a qualcuno che non siano i Greta Van Fleet. Siamo diventati così pigri da preferire una cover band dei Led Zeppelin, composta pure da ragazzi talentuosi e che rubano la scena, a qualsiasi altra cosa che non suoni come qualcos’altro.

Il bivio tra tradizione e innovazione, che è un must delle cucine televisive, ha fatto più vittime nel rock che in ogni altro ambito, non solo musicale, ma della vita: basti pensare a tutti quegli artisti o gruppi che, dagli anni Ottanta, e non per dar ragione agli Afterhours, non sono usciti vivi. O pensando invece a quegli altri arrivati ai giorni nostri che, dimenticato presto il brio dell’avventura, sono subito tornati a fare quello che gli riusciva meglio.

Siamo nel 2020, ma per certi versi sembra di non essere mai andati oltre gli anni Settanta. Eppure basterebbe chiedere ai Queen cosa ne sarebbe stato della loro carriera se avessero tenuto fede al monito “nessun sintetizzatore è stato usato per la realizzazione di questo disco”, che pure il gruppo – Brian May in testa – aveva preso a pretesto per giustificare quel suono di chitarra (appunto), così originale e divenuto poi un vero e proprio marchio di fabbrica. Per la serie: imbraccia uno strumento, e usalo un po’ come ti pare.

Manca quindi l’elemento anarchico: se l’uomo, da sempre, rifiuta (in misura maggiore o minore) di delegare la sua esistenza ad altri. Allora i musicisti dovrebbero essere i primi a non arrendersi ai propri fan.

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