Cultura

Giorno della Memoria, storia di Sciesopoli: l’ex colonia di Selvino che si trasformò in casa e scuola per 800 orfani in fuga da guerra e persecuzioni

La storia della grande struttura di Selvino, in provincia di Bergamo, che da ex tendopoli fascista diventò rifugio per centinaia di bambini provenienti da tutta Europa che qui fecero lezione, imparavano mestieri e potevano tornare a giocare. "I giovani sono il futuro del nostro popolo" recitava uno striscione nel refettorio

di Francesco Zecchini

Lo psicologo Wilhelm Wundt parlerebbe di eterogenesi dei fini. Raccontare la storia dei bambini di Selvino significa certamente parlare di una storia di rinascita dopo l’orrore della guerra e dei campi di concentramento. Ma significa anche raccontare la storia di una grande struttura che per poco più di 800 orfani ebrei da ex colonia fascista divenne dopo il secondo conflitto mondiale “la casa” dopo un esilio o una persecuzione durati anni. Una villa che trova ancora oggi scritto su una lapide grigia al primo posto tra i soci perpetui, il nome di Benito Mussolini, colui che elaborò e firmò le leggi razziali che distrussero le famiglie ebree di tutta Italia.

Una “tendopoli” dedicata a Sciesa: Sciesopoli
La storia di questa struttura comincia l’11 giugno 1933 quando il gruppo fascista milanese che prende il nome dal patriota risorgimentale Amatore Sciesa fonda una casa colonica a Selvino, un paese avvolto dalle Prealpi bergamasche. Una “tendopoli” (così i fascisti definivano i loro campeggi) dedicata a Sciesa: Sciesopoli. L’edificio viene consacrato alla memoria di due fascisti, Cesare Melloni ed Emilio Tonoli, uccisi il 4 agosto 1922 durante l’assalto degli uomini di Mussolini al giornale del Psi, L’Avanti. Nella colonia ci sono una palestra, una piscina coperta e addirittura un cinema. Ogni estate, la casa ospita i Figli della lupa, i Balilla e le Piccole italiane per le vacanze estive. Le attività, l’educazione e la propaganda rimangono immutate con il passare delle generazioni. Anche durante la guerra.

“I giovani sono il futuro del nostro popolo”
Ed è così che arriviamo al 22 settembre 1945, giorno di shabbat. In quella data i cancelli si aprono per accogliere nuovi bambini da educare. Ma non indossano più la camicia nera. Sono invece orfani ebrei, provenienti in gran parte dall’Europa Orientale, raccolti dalla Brigata Ebraica dell’esercito inglese e condotti a Selvino con mezzi al limite della legalità. L’obiettivo è rieducare quelli che con un’espressione biblica si chiamano she’erit hapletah (il “resto dei sopravvissuti”) per permettere loro di ricostruirsi una vita, lasciandosi alle spalle il passato per guardare fiduciosi l’avvenire. A testimonianza di ciò, nel refettorio era appeso uno striscione: “I giovani sono il futuro del nostro popolo”.

Un’altra guida che si chiama Mosè
E il popolo d’Israele riscopre qui la sua matrice comune, dopo anni di prigionia o di fuga nel deserto della persecuzione. E la sua nuova guida si chiama ancora Mosè. Parliamo di Moshe Zeiri, un soldato della Brigata Ebraica che cerca di organizzare la colonia senza voltarsi al passato. I bambini vengono educati qui, imparano la lingua ebraica che diversi non conoscevano e si preparano alla famiglia che li adotterà: la Terra Promessa.

La vita di Sciesopoli, tra scuola, lavoro, giochi
La vita dei bambini nell’orfanotrofio è molto intensa. La giornata inizia sempre alle 6.30 con un’adunata e l’alzata della bandiera ebraica. Dopo la ginnastica e la colazione, i ragazzi si dividono in due gruppi: alcuni si dedicano ai lavori domestici, gli altri studiano la lingua, la storia del popolo ebraico e la geografia della Palestina. In particolare, gli uomini studiano da fabbri e le donne da sarte. Nel pomeriggio le attività si invertono. Verso sera, arriva il momento comune del relax con il ping-pong e i giochi nell’immenso parco. Dopo cena è invece previsto un altro grande momento identitario e insieme divertente: si balla e si canta sulle note di musiche ebraiche. Canti che – se fatti all’aperto – si sentono in lontananza anche a Selvino.

Il paese non ha rapporti diretti con i piccoli ebrei, anche se li guarda con benevolenza. Ad esempio, il sindaco nel 1945 accoglie Moshe Zeiri e i primi arrivati con gioia: “Sono stato partigiano, ho sofferto sotto i neri fascisti e i neri preti. Sono contento che siate venuti qui e vi auguro che da qui si apra per voi la strada della vostra patria, la Palestina”.

“L’anima dei miei cari ha macchiato il sangue di quegli assassini”
Proprio questa è l’esperienza di Leah Spivak, una delle bambine di Selvino della quale la figlia Tami ha raccontato la storia a ilfattoquotidiano.it. E da quella terra al di là del Mediterraneo Leah riceve per la prima volta notizie dai suoi familiari dopo la guerra. I mittenti delle lettere sono gli zii Gad e Zehava, emigrati in Israele prima del conflitto. La ragazza risponde così: “Fino al mio arrivo a Selvino la mia esistenza era stata piena di disperazione e colma di depressione. Ero esule, tra gli estranei. Spesso ho anche rimpianto di aver abbandonato casa e familiari. A volte penso che sarebbe meglio se fossi con i miei cari genitori, che sono stati la mia salvezza e che sono stati uccisi da assassini senza pietà. L’anima dei miei cari ha macchiato il sangue di quegli omicidi. Lo ammetto, a volte vivo immersa nella rabbia. Ma poi penso che sono giovane e che la mia vita è ancora lunga davanti a me. Dopo tutto, non sono la sola. Molti miei coetanei hanno conosciuto il sapore della guerra. E questo alle volte mi incoraggia”.

Il filo della memoria riannodato nel 1983
Sciesopoli resterà operativa per tre anni. Nel 1948 anche l’ultimo ragazzo la abbandona per andare in Israele. Ad attendere questi giovani c’è però un’altra guerra che costerà la vita a cinque dei bambini di Selvino. La colonia verrà abbandonata definitivamente dopo la chiusura del sanatorio che vi era stato in seguito installato. La polvere e il degrado si impadroniscono dell’edificio che sembra scivolare nell’oblio. Ma la memoria riemerge proprio grazie ai protagonisti di quella storia: nel 1983 un gruppo di 66 ebrei si presenta ai cancelli della struttura. Sono tutti “bambini di Selvino” (c’è anche Moshe Zeiri), venuti a riannodare un filo che non si era mai spezzato. E sarà proprio la loro associazione, chiamata “Children of Selvino” a contribuire a trasformare l’edificio in un museo che è stato inaugurato il 27 ottobre 2019. Un museo che a maggio riabbraccerà gli she’erit hapletah, “i sopravvissuti”. Per non dimenticare mai quella storia. La storia di bambini che vinsero l’orrore, la storia della vita che vinse le parole dell’odio e della morte.

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