Il tumore al nervo acustico dell’orecchio destro che ha colpito Roberto Romeo è stato causato dall’uso del cellulare. La Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza del giudice Luca Fadda, che nell’aprile 2017 aveva condannato l’Inail a riconoscere una rendita da malattia professionale all’ex tecnico della Telecom per l’uso “abnorme” del telefonino, dovuto al suo lavoro, nel periodo 1995-2010.

“Letteratura scientifica in conflitto d’interessi”
E nelle motivazioni della sentenza, emessa lo scorso 3 dicembre, il collegio ribadisce anche i sospetti sull’imparzialità di alcuni studi ‘tranquillizzanti’: “Buona parte della letteratura scientifica che esclude la cancerogenicità dell’esposizione a radiofrequenze (…) versa in posizione di conflitto d’interessi, peraltro non sempre dichiarato”, scrivono i giudici della sezione Lavoro Rita Mancuso, Caterina Baisi e Silvia Casarino, sulla base delle conclusioni dei consulenti Carolina Marino e Angelo D’Errico, nominati per rianalizzare il materiale probatorio già soppesato dal ctu del giudice di Ivrea, Maurizio Crosignani.

“Solidi elementi” sul ruolo causale dell’uso
Le 36 pagine rappresentano un verdetto storico, perché per la prima volta un lavoratore ha ottenuto due sentenze di merito favorevoli in casi simili e la domanda di indennizzo da parte di Romeo – difeso dagli avvocati Stefano Bertone, Renato Ambrosio e Chiara Gribaudo dello studio Ambrosio&Commodo – nel corso del 2019 è stata accolta anche dal Tribunale di Monza. La Corte d’appello torinese non ha dubbi sul caso di Romeo dopo aver fatto rianalizzare dai nuovi periti tutto il materiale scientifico: Marino e D’Errico, si legge nella sentenza, hanno fornito “solidi elementi per affermare un ruolo causale tra l’esposizione dell’appellato alle radiofrequenze da telefono cellulare e la malattia insorta”.

“Elevata probabilità del nesso eziologico”
Ad avviso dei giudici, infatti, “esiste una legge scientifica di copertura che supporta l’affermazione del nesso causale secondo criteri probabilistici ‘più probabile che non'”. E nel “caso specifico in esame” è “dato ritenere che” con “criterio di elevata probabilità logica” si possa “ammettere un nesso eziologico tra la prolungata e cospicua esposizione lavorativa a radiofrequenza emesse da telefono cellulare e la malattia denunciata” da Romeo all’Inail.

Le “maggiori garanzie” degli studi indipendenti
Ma i consulenti e la sentenza vanno oltre. Sulla qualità della letteratura scientifica in materia di relazione tra tumori e radiofrequenze, infatti, i consulenti scrivono: “Buona parte della letteratura scientifica che esclude la cancerogenicità (…) versa in posizione di conflitto d’interessi, peraltro non sempre dichiarato”, scrivono. In quel caso, specificano, “si ritiene che debba essere dato minor peso agli studi”. Una impostazione che viene condivisa dalla Corte d’appello “essendo evidente che l’indagine, e le conclusioni, di autori indipendenti diano maggiori garanzie di attendibilità rispetto a quelle commissionate, gestite o finanziate almeno in parte, da soggetti interessati all’esito degli studi”.

La storia di Roberto Romeo
Romeo, all’epoca dei fatti, era un tecnico della Telecom e trascorreva per lavoro tra le 2 e le 7 ore al giorno al cellulare: in sostanza, calcolando una media di 4 ore al giorno, ha trascorso 840 ore all’anno usando il telefonino per un “tempo stimato complessivo (…) nell’intervallo di 15 anni intercorso tra il 1995 e il 2010 pari a 12.600 ore”. E all’epoca, annota la Corte, “non esistevano strumenti che consentissero di evitare il contatto diretto del telefono cellulare con il viso, come cuffiette o auricolari”. Negli anni successivi ha poi sviluppato un neurinoma all’orecchio destro, lato dove utilizzato il cellulare.

Il legale: “Conferma sugli studi negazionisti”
“Ciò che ci interessava di più dal punto di vista legale – spiega l’avvocato Stefano Bertone – era la conferma che gli studi ‘negazionisti’ finanziati dall’industria non potessero andare a fondare, influenzandolo, il ragionamento dei consulenti dei tribunali nelle cause che riguardano la telefonia mobile”. La Corte d’Appello, aggiunge il legale, “ci dà ragione con un concetto tanto semplice quanto decisivo: siccome l’industria ha interesse all’esito degli studi, chi lavora per lei o con suoi soldi esprime pareri meno attendibili di chi fa ricerca senza tornaconto”.

Critiche anche all’Istituto superiore di sanità
I consulenti della Corte d’appello criticano anche lo studio pubblicato lo scorso agosto dall’Istituto superiore di Sanità, per il quale l’uso prolungato dei cellulari “non è associato” all’incremento del rischio di tumori. A loro avviso, lo studio “usa in modo inappropriato i dati sull’andamento dell’incidenza dei tumori cerebrali” e “non tiene conto dei recenti studi sperimentali su animali” né “ha diramato raccomandazioni più stringenti sui limiti di esposizione a radiofrequenze, in particolare per bambini e adolescenti”, nonostante si dichiari incerto sugli effetti associati in quell’età a un uso intenso.

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