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Sempre più neomamme lasciano il lavoro. Il Paese del Family day queste famiglie non le ama proprio

Sempre più neomamme lasciano il lavoro. Il Paese del Family day queste famiglie non le ama proprio
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Cristina ha 35 anni e aspetta Greta da sei mesi. La sua pancia cresce insieme alle paure e agli sguardi dei suoi superiori, che a lavoro fingono di congratularsi con lei senza poi risparmiarsi le solite battute: “Allora, quando ti rivedremo?”.

Melissa ha 39 anni, è al secondo figlio, le dicono sempre sia stata coraggiosa a farne due e ogni volta le viene da pensare: “Non so se è un complimento o un’accusa”.

Rita di anni ne ha 29, ama Paolo e convive da due anni. Lui vorrebbe dei bambini, lei anche ma “lui la fa facile, è maschio”.

Alessandra ha saltato il turno. Aveva trent’anni a tanti sogni di maternità insieme a quelli professionali, ma tra un contratto e l’altro il tempo è volato via in un soffio. Ora Alessandra lavora stabilmente per una multinazionale, ha 45 anni e nessuna intenzione di ricominciare.

Ginevra si alza alle sei, bacia suo figlio, corre tutto il giorno e resta intrappolata tra riunioni serali, trasferte, orari impossibili, pediatri che non si trovano. Mattia ha 5 anni e lo cresce qualcun’altra.

Dal 2011 al 2017, in Italia, 165.562 donne hanno lasciato il lavoro soprattutto per le difficoltà nel mettere d’accordo lavoro e famiglia. E il numero va aumentando: mentre nel 2011 erano 17.175, nel 2017 sono salite a 30.672. I dati 2017 dell’Ispettorato nazionale del lavoro non lasciano ombra di dubbio: il paese del Family day queste famiglie non le ama proprio. E se c’è chi si barcamena tra nonni, zii, parenti e vicini di casa in versione baby sitter, c’è chi non ha neanche questo “privilegio” e allora decide di tirare i remi in barca, insieme ai sogni.

L’Italia del gender gap è ancora piena di stereotipi che pesano sulla vita delle donne: uno studio presentato qualche settimana fa al convegno di Bankitalia Gender gaps in the italian economy racconta che il tempo dedicato dai padri alla famiglia è di 8,13 ore a settimana, mentre quello delle madri è di 29,68. E’ in questo abisso che si misura il fardello delle donne della mia generazione. Un peso che racconta di colloqui lavorativi basati sulla maturità del proprio apparato riproduttivo, di contratti tarati sul tempo del nostro orologio biologico, di rinvii decisi dopo altri rinvii, perché adesso non è il caso, perché ora non è proprio il momento giusto. E il momento giusto, poi, non arriva mai.

Ridiamo voce a queste maternità, quelle dai mille lavori e dai mille euro al mese. A tutte le equilibriste, alle funambole che attraversano sul filo del rasoio ogni pezzetto del giorno. Alle mamme che corrono e a quelle che invece hanno deciso di fermarsi, a chi fatica nella conciliazione dei tempi del lavoro con quelli della vita familiare, senza riuscire a riannodare i fili né dell’uno né dell’altro. Alle donne che lottano e sfidano gli stereotipi e i pregiudizi, a quelle che attraversano imperterrite gli sguardi infastiditi dei colleghi di fronte a una seconda gravidanza e camminano a testa alta nei corridoi degli uffici. Alle lavoratrici che naufragano dietro un parabrezza di pioggia, nel traffico che le separa prima dal lavoro e poi dalla famiglia e a quelle che soffocano tra gli incastri di una vita in apnea, dove tutto dovrebbe coincidere ma niente combacia. Questo articolo è per voi.

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