Dieci anni fa moriva Beniamino Placido, l’ultimo grande critico televisivo dopo Achille Campanile e Sergio Saviane. Intellettuale raffinatissimo, studioso di cultura inglese e americana, divulgatore e conduttore tv, giornalista e, prima ancora, anche funzionario dirigente della Camera. Placido firmò ininterrottamente per quasi un decennio, dal 1986 al 1994, una rubrica su Repubblica dal titolo A parer mio, che non solo rimane insuperata per intelligenza e vivacità culturale, ma contribuì prepotentemente anche a svecchiare l’intera cultura italiana sulle questioni aperte dall’avvento dell’industria culturale e dalla cultura di massa.

La lezione di Placido in questo senso fu cruciale: utilizzava, come lo definì Aldo Grasso, un metodo, il ‘metodo Placido’, che spiazzava proprio perché si sostanziava di un’inedita varietà di apporti e riferimenti, da Shakespeare a Baudo, da Freud a Biscardi, da Edison al tennis, da Mozart a Platini, dall’Ecclesiaste a Mike Bongiorno. In questo Placido si mostrò degno compagno di strada di Umberto Eco, insieme al quale negli anni Ottanta costituì certamente un riferimento innovativo per tutta l’intellighenzia nazionale. Dimostrando ancora una volta, come aveva fatto l’autore del Nome della rosa attirandosi più di una critica, che per spiegare a fondo i fenomeni della società e della cultura era necessario a volte ricorrere a materiali o a fonti forse poco nobili, però più utili ad aprire varchi di lettura inediti. E’ indubbiamente questo il suo lascito fondamentale, un’eredità che purtroppo nessuno ha poi saputo raccogliere. In questo Placido è sicuramente rimasto unico e inimitabile.

Applicando la sua acribia di storico della letteratura, di critico cinematografico e di intellettuale per nulla provinciale (la famosa ‘gita a Chiasso’, secondo Arbasino indispensabile alla cultura nazionale per svecchiarsi, lui l’aveva fatta recandosi in America negli anni Sessanta a studiare), Placido tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta fu il giornalista che più si occupò della tv e dei suoi programmi, vera spina nel fianco per tutti quelli che facevano televisione. Ogni critica di Placido lasciava il segno, ancor di più perché condotta senza snobismo culturale né aristocratico rifiuto.

Ma così come utilizzava materiali a volte poco tradizionali, sovente riusciva con leggerezza ad applicare alla critica tv i modelli della cultura alta: come quando scrisse che la televisione-spettacolo l’aveva inventata il poeta inglese Eliot introducendo il concetto di “correlativo oggettivo”: “se sei un poeta e vuoi esprimere la passione che ti urge dentro, non metterti ad abbaiare alla luna, ah come amo, ah come soffro. Se sei un vero poeta inventa un personaggio, un oggetto, una situazione che sia ‘l’equivalente’ (ovvero il ‘correlativo oggettivo’) del tuo travaglio interno”. Insomma in televisione, sosteneva con inusuale precisione tecnica, non c’è bisogno di “abbandonarsi alle chiacchiere ma usare degli oggetti, inventare delle situazioni, produrre degli equivalenti, per farsi capire”.

Una massima che egli stesso aveva applicato nei molti programmi televisivi che si era trovato a realizzare e a condurre prima di fare il critico: Serata Garibaldi (1982), due puntate di Serata Mussolini (1983), Serata Manzoni (1985). In queste trasmissioni, ma anche in Eppur si muove – programma che condusse con Indro Montanelli nel 1995 – dimostrò una dimestichezza straordinaria con il mezzo. Per raccontare del Duce finse, ad esempio, di mettere all’asta tutta una serie di oggetti legati al fascismo: un’antenna radio, un parafulmine, un giradischi, un quadro futurista, una bandiera italiana, un balcone. Per ognuno di essi naturalmente poi un excursus ne chiariva le relazioni con l’argomento della serata.

Modalità inedite, che spettacolarizzando senza enfasi contribuivano a fare storia attraverso un seducente processo interpretativo che utilizzava i ‘segni’ del tempo. Quei segni del tempo, si badi, di cui avrebbe cercato di dare lettura quasi ogni giorno attraverso l’attività di critico televisivo.

Placido fu anche colui che meglio di altri all’epoca denunciò il misoneismo di quegli intellettuali che parlavano male della tv, così come i loro padri o i loro nonni avevano parlato male del cinema o del teatro; colui che mise a nudo l’abito mentale dei nostalgici del passato a volte con citazioni fulminanti, come quella dell’aristocratica francese che parlava bene degli anni della Rivoluzione: “ma erano anni di terrore, Madame, la ghigliottina lavorava infaticabile, le teste cadevano nei panieri! Sì – rispondeva la Marchesa – ma io avevo vent’anni”.

Colui che sottolineò prima di altri i meccanismi che presiedevano alla fruizione della serialità televisiva, scrivendo come la cultura della ‘trasgressione’, in quegli anni egemone a sinistra, si trovasse al mal partito rispetto a Dallas o Dynasty: “sempre gli stessi personaggi, sempre le stesse prevedibili cose. Qui non si innova, non si rivoluziona, non si ‘trasgredisce’ mai… Ciò non toglie che Dallas e Dynasty – scriveva – abbiano un loro diritto di cittadinanza nella vita del nostro immaginario. Perché il nostro immaginario ha bisogno di sapere, sì, che domani è un altro giorno, trasgressivamente diverso da oggi; ma ha altrettanto bisogno di sapere che domani, come oggi, sorgerà il sole, poi tramonterà, poi verrà la luna con assoluta rassicurante regolarità”.

Colui, infine, che seppe cogliere meglio di altri anche i limiti della tv, quelli che oggi forse sperimentiamo con maggiore patologica frequenza: un mezzo che funziona bene nelle emergenze, che ci racconta bene le disgrazie, ma che non sa raccontare la “normalità”, come egli scriveva.

Oggi la critica tv, quella che fa male, che fa opinione e fa cambiare i programmi, è pressoché scomparsa (resiste solo Aldo Grasso), azzerata nella babele dell’individualismo di massa e dei social, soffocata dalla crisi dei giornali; ma Dio sa quanto oggi Beniamino Placido ci manchi. Alla nostra tv. E alla nostra cultura.

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