di Andrea Masala

Sabato 14 dicembre sono andato anche io a San Giovanni a Roma. Ero curioso, e ho fatto bene. Già sul tram si respirava un’aria che non sentivo da tanto: facce allegre, senso di comunità, fierezza e liberazione dalla cappa di paura. Erano tutti manifestanti e, come tanto tempo fa, in queste occasioni si ha l’impressione di essere padroni di se stessi, della città, del mondo.

Si tratta di una sensazione naturalmente, ma che dice del rapporto tra cittadino e polis. La piazza era pienissima e con molto viavai, quindi ancor più partecipata che nel fermo immagine. Il giorno dopo le Sardine si sono viste in un centro occupato (molto, molto attivo e intelligente) e questo mi fa molto piacere. Ma che possiamo dire finora di questo movimento?

Ho letto due tipi di critiche, una di tipo “socialista” e una di tipo “liberale” (liberale in senso classico dico, non con lo stupro di questa parola perpetrato negli ultimi 30 anni). La prima dice: “Ma parlando solo di odio e comunicazione non si attraggono i precari, le periferie, il disagio sociale. È una protesta tutta sul piano simbolico che si può permettere chi non ha disagi sul piano materiale”.

La seconda invece dice: “Ma questi tacitano le espressioni contrarie, chiedono di equiparare la violenza verbale a quella fisica, vietano la libera manifestazione delle opinioni con i mezzi e i linguaggi che liberamente ognuno può scegliere”.

Entrambi i piani critici hanno ragioni molto fondate, però non tengono conto del fattore “movimento”. Quando si generano movimenti sociali con dimensioni di massa come quelle che vediamo, ci sono sempre ragioni profonde che solo parzialmente emergono negli slogan e nelle rivendicazioni ufficiali e che anzi spesso sono parziali, grezze, contraddittorie.

Questo movimento fa perno sulla potenza polarizzante del fenomeno Matteo Salvini (ormai sono fenomeni, non leader politici, tra il consumo e lo show) come altri lo fecero su quella di Silvio Berlusconi; infatti a capo di movimenti contro un populista dell’élite c’erano registi, docenti, intellettuali, mentre a capo del movimento contro un populista generico e nazionalista c’è una giovane generazione cosmopolita generica.

Se quei movimenti sceglievano il piano incrociato tra giustizia e informazione, rappresentato da Berlusconi, questo movimento sceglie il solo piano del “simbolico”, del “mediatico” e non perché chi va in quelle piazze disprezzi il piano materiale (economico-sociale) o non si renda conto della sua importanza. Sceglie solo il piano “immateriale” perché nell’era dell’Informazione e della Conoscenza quel piano ha un suo valore “materiale”, una sua materialità. Che pesa come un corpo fisico nella sfera pubblica e nel piano della vita reale. Di questo deve tenere conto chi avanza la pur sacrosanta critica “socialista”.

Le Sardine non rifiutano il piano materiale, ma si stanno occupando degli effetti materiali del piano immateriale, degli effetti che ha nelle nostre vite. Chiedete ai più giovani quanto pesino nelle loro vite quelle loro esperienze digitali che chiamano dissing, shaming o qualche altro -ing. Per i critici “liberali” invece il problema è nel carattere illiberale delle proposte. Problema reale, ma che sarebbe sbagliato criticare tout-court.

Quello cui assistiamo è un enorme ritardo della cultura democratica: da decenni il Quarto Potere (l’informazione) ha almeno lo stesso potere degli altri tre poteri costituzionalizzati (legislativo, esecutivo e giudiziario). Però non si è mai pensato a come normarlo ed equilibrarlo sul piano degli altri poteri nella sfera pubblica.

Così abbiamo assistito a un costante e progressivo degrado, parallelo a un aumento di potere di questo settore: dalle pacate tribune politiche della Prima Repubblica con i suoi giornali “borghesi” o popolari ai talk-show dove regna il trash e giornali con editori sempre impuri, le veline al posto delle inchieste, un notiziario che sa solo strisciare.

Questa degenerazione ha smottato gli equilibri della sfera pubblica: ha prodotto opinionisti muscolari, leader politici istrionici, partiti estemporanei, cortocircuiti col potere giudiziario, infotainment, emozioni (sempre negative) al posto dell’informazione. Già a questo punto (tra anni 80 e 90) sarebbe stata urgente una costituzionalizzazione di questo potere per riportarlo al suo ruolo di servizio della sfera pubblica, ma non si pose neanche la questione.

Ma a questa situazione si aggiunse il web 2.0, i social, le piattaforme, con la loro micidiale potenza nell’amplificare il trash televisivo e microdiffonderlo, disintermediando e profilando le utenze, col loro carattere “discreto” che mette insieme espansione globale del messaggio e sensazione di emetterlo tra amici.

Al di là degli slogan o dei loro leader (che forse rischiano di cadere nella stessa trappola che stanno denunciando), le Sardine segnalano questo problema: l’urgenza di regolare la sfera pubblica, di inquadrare il mediatico nell’equilibrio di poteri costituzionali. Non per inseguire una inesistente e impossibile neutralità dell’informazione, ma proprio sapendo la sua arbitrarietà, per trovare le formule democratiche adatte al suo miglior uso finalizzato al miglioramento della sfera pubblica e della vita reale.

Senza un Quarto Potere sano e vitale non avremo lo spazio giusto neanche per le rivendicazioni economiche e sociali; senza una sfera mediatica accessibile e tollerante non avremo le condizioni di costruzione di una nuova cittadinanza dell’era digitale. Questo movimento segnala un’enorme mancanza nella costruzione costituzionale democratica, alle migliori intelligenze ed energie sta la responsabilità di trovare soluzioni praticabili e la forza per imporle.

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