Non è una rottura, ma è sicuramente un momento di svolta. Si potrebbe sintetizzare così l’intervista che Joe Biden ha concesso a Erin Burnett di Cnn e. Pur reiterando l’appoggio “ferreo” degli Stati Uniti a Israele, il presidente ha infatti detto due cose importanti. Da un lato, che la sua amministrazione è pronta a bloccare altri rifornimenti militari, tra questi gli strumenti di artiglieria, che possano essere usati “per entrare nei centri abitati” del sud di Gaza. Dall’altro, Biden ha riconosciuto che “civili sono stati uccisi a causa delle bombe” inviate dagli Stati Uniti a Israele. Un’ammissione che svela il carattere dolorosamente personale che questa vicenda ha ormai assunto per lui.

Le dichiarazioni di Biden arrivano dopo che il segretario alla difesa Lloyd Austin aveva già confermato il blocco del trasferimento in Israele di 1.800 bombe da 2.000 libbre (circa 900 kg) e 1.700 da 500 libbre (circa 225 kg). Nell’intervista, il presidente si premura di precisare che “non stiamo lasciando solo Israele in tema di sicurezza. Stiamo prendendo le distanze quanto a capacità di Israele di fare la guerra in aree popolate di civili”. Resta peraltro confermato che la sua amministrazione continuerà a inviare in Israele copiose forniture di armi. E in queste ore diverse fonti dell’amministrazione si sono affrettate a sottolineare che nessuna decisione definitiva è stata presa sulle armi per il momento trattenute. Come a dire, potrebbero presto essere sbloccate e inviate a Tel Aviv.

Fatti i necessari distinguo, che spiegano perché la decisione e le parole di Biden non sono una rottura con Israele, va comunque segnalato il loro carattere storico. Non è la prima volta che un presidente americano blocca trasferimenti militari a Israele. Nel 1982 Ronald Reagan impose un bando di 6 anni alla vendita di bombe a grappolo a Tel Aviv, dopo che un’indagine del Congresso aveva accertato che le forze israeliane le avevano usate in aree popolate del Libano. E nel 2014, nel mezzo di un’altra crisi a Gaza, Barack Obama sottopose a revisione le richieste militari israeliane. Ma si tratta, chiaramente, di scelte e momenti molto diversi. Biden infatti blocca l’invio di armi, e minaccia altre ritorsioni, nel momento in cui il governo israeliano afferma di combattere una guerra da cui dipende la sopravvivenza stessa dello ‘Stato ebraico‘ e dopo il massacro, da parte di Hamas, di 1.200 cittadini israeliani.

C’è poi un altro aspetto politicamente importante nell’intervista di Biden. Sinora, le dispute e le discussioni anche accese tra Washington e Gerusalemme erano state perlopiù limitate ai canali più privati della diplomazia. Biden aveva certo in alcune occasioni espresso la sua contrarietà alle scelte di Benjamin Netanyahu. Esponenti dell’amministrazione avevano posto l’accento sulle differenti visioni rispetto al futuro della guerra, in particolare per quanto riguarda Rafah. Ma si trattava appunto di episodi, che non scalfivano l’unità di fondo tra i due alleati. A questo punto, invece, Biden rende esplicito il dissenso nei confronti del governo di Israele e lo fa nella forma di un avvertimento. Se Israele farà quello che gli Stati Uniti non vogliano faccia, ci saranno conseguenze. Il blocco delle forniture militari, appunto. Ma al vaglio dell’amministrazione ci sono altre opzioni, come la fine dello scudo protettivo Usa a Israele in Consiglio di Sicurezza dell’Onu, o la possibilità che gli Stati Uniti non si oppongano a eventuali mandati da parte della Corte Internazionale dell’Aja nei confronti dei leader politici e militari israeliani.

Biden, del resto, non poteva più tergiversare. La continua, sfacciata messa in discussione della sua autorità da parte di Tel Aviv – ultimo episodio, il gabinetto di guerra israeliano che all’unanimità vota per l’offensiva di terra a Rafah – rischiava di far precipitare i rapporti sin qui di proficua collaborazione con i Paesi arabi, in particolare con l’Egitto. Come può infatti la sua amministrazione risultare un interlocutore credibile con il Cairo e le altre capitali mediorientali se non riesce a contenere la deriva sempre più aggressiva di Israele? Di più, come può l’amministrazione Usa risultare credibile se il suo più stretto alleato deride pubblicamente le sue volontà?

C’è poi, altrettanto complicato, il fronte interno. Biden ha assolutamente bisogno di arrivare a un cessate il fuoco prima che inizi la fase più calda della campagna elettorale. Per il momento Donald Trump è occupato ad ascoltare le accuse contro di lui che Stormy Daniels gli muove in un tribunale di Manhattan, ma tra un paio di mesi sarà diverso. La campagna diventerà onnipresente, infuocata, e Biden non può affrontarla con un conflitto aperto e con i campus universitari in rivolta. Un sondaggio Data for Progress dell’8 maggio mostra peraltro che una maggioranza ormai consistente di americani, sette su dieci, chiede il cessate il fuoco e l’assistenza umanitaria a Gaza. La richiesta di fine guerra è trasversale. Riguarda l’83% dei democratici, il 65% degli indipendenti e il 56% dei repubblicani.

C’è, infine, un altro elemento che emerge dall’intervista di Biden ed è quello umano. Al giornalista di Cnn che gli ha chiesto se ha ascoltato le proteste degli studenti che nei campus universitari lo hanno chiamato “Genocide Joe”, Biden ha risposto: “Sì, assolutamente, ho ascoltato il loro messaggio”. Si tratta, in fondo, del riconoscimento del valore di quelle proteste che fa tutt’uno con il riconoscimento che le bombe americane hanno contribuito a uccidere migliaia di civili palestinesi. Questa guerra è costata molto cara politicamente a Joe Biden, ma gli è costata molto cara anche umanamente. Il presidente forse più filoisraeliano della storia americana, l’uomo che si è sempre vantato di amare lo Stato ebraico, di essere più sionista dei sionisti è costretto a riconoscere le sue responsabilità nel massacro in corso e a prendere le distanze da ciò che ha difeso ed esaltato per tutta la sua carriera politica.

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