L’esplosione della bomba alla banca dell’Agricoltura ci colpì tutti. E lo shock fu aumentato dalle dichiarazioni della polizia che pareva certa che gli attentatori fossero di sinistra. Eravamo sbigottiti. Poi Giuseppe Pinelli volò giù dalla finestra. E la tv disse che l’anarchico si era suicidato quando gli avevano detto che Giovanni Valpreda aveva confessato. Lanciandosi nel vuoto Pinelli avrebbe gridato “è la fine dell’anarchia!”. Si era quindi di fronte alla certezza che fossero stati gli anarchici a provocare quei 17 morti (che poi diventeranno 18).

Erano passati solo tre giorni dalla bomba ma già affioravano falle vistose e contraddizioni inspiegabili nella ricostruzione ufficiale dell’attentato e qualcuno stava scuotendosi di dosso il mantra della televisione. Tra questi i miei genitori, che decisero di debuttare in fretta con uno spettacolo che raccontasse la controinchiesta che giornalisti e avvocati stavano realizzando.

Ma non volevano limitarsi a leggere un testo di controinformazione. Erano convinti che solo rovesciando in chiave comica, di commedia, quel che era realmente accaduto, sarebbe stato possibile arrivare a milioni di persone, coinvolgerle, emozionarle e dare realmente l’idea della misura dell’abominio che si era consumato: interi dipartimenti dello Stato e della politica avevano scelto di scatenare una serie di attentati contro cittadini inermi con il preciso scopo di far ricadere la colpa sulla sinistra e in particolare sul grande movimento popolare che stava rivoluzionando l’Italia.

Nacque così ”Morte accidentale di un anarchico” che dopo “Mistero Buffo” e “Sesso, grazie, tanto per gradire” arrivò al terzo posto nella classifica degli spettacoli di autori viventi più rappresentati nel mondo. Centinaia di compagnie lo portarono in scena in tutto il mondo, spesso incappando nella censura e nell’ira dei potenti. Incredibile come da New York al Messico, da Mosca a Nuova Delhi, la storia non venne mai letta come un evento italiano ma come l’archetipo di migliaia di assassinii consumati nei commissariati e nelle caserme del mondo.

La forza dello spettacolo stava nella macchina teatrale che i miei decisero di utilizzare. Una macchina che derivava direttamente dall’antica tradizione della Commedia dell’Arte e dei giullari. Invece di mettere in scena una conferenza o un comizio usarono il gioco del pazzo che adora interpretare ruoli di potere e che vuole a tutti i costi aiutare i responsabili dell’uccisione di Pinelli a farla franca.

La storia inizia con l’arresto di questo pazzo che ha la mania di spacciarsi per chirurgo, vescovo, senatore. Lo portano proprio nella Questura centrale di via Fatebenefratelli, dove Pinelli “è stato suicidato”. Il commissario che lo sta interrogando è chiamato d’urgenza. Il pazzo resta da solo chiuso in quell’ufficio. Suona il telefono, lui risponde, gli comunicano che il giudice che doveva arrivare per interrogare i vertici della questura sulla morte di Pinelli non può presentarsi. E lui decide di impersonare il giudice.

Riesce a evadere dall’ufficio e si presenta al questore e ai commissari coinvolti nell’accaduto. E qui c’è il colpo di genio (del pazzo e di mio padre); il pazzo spiega che i poliziotti han fatto un gran casino con le dichiarazioni contraddittorie che hanno rilasciato: com’è possibile che, dopo che un commissario ha detto che aveva cercato di impedire il suicidio afferrando l’anarchico per il piede, tanto che gli era restata in mano una scarpa, poi l’anarchico sfracellato al suolo avesse entrambe le scarpe ai piedi? Aveva forse tre scarpe? E quanti piedi?

Così il finto giudice costringe questore e commissari a ripercorrere tutta la versione ufficiale, cercando di renderla credibile; di fronte alle reticenze dei poliziotti li insulta, li minaccia, li deride perché sono stati capaci di cucire un racconto che neanche gli internati in un manicomio avrebbero realizzato in modo così assurdo e maldestro.

La commedia corre veloce come sulla lama di un coltello, senza che mai il pazzo smetta i panni del difensore del potere; lui crede nel diritto della forza e nella necessità di non seguire alla lettera la legge pur di salvare l’ordine costituito. Il pazzo è un reazionario senza essere un baciapile, è geniale per come riesce a trovare soluzioni per far combaciare la nuova versione ufficiale alle prime dichiarazioni rilasciate ai giornali, è un fustigatore, un padre, un fratello, un complice del questore.

Alla fine riesce a soggiogare completamente i dirigenti della questura in una sarabanda di rovesciamenti e colpi di scena costanti, esilaranti. Si riesce così a trasformare in commedia leggera la distruzione pezzo per pezzo dell’inchiesta ufficiale, fornendo tutti gli elementi al pubblico, nei dettagli, senza mai cadere nella lezione e perdere il filo delle risate.

Interessante anche notare che dietro c’era un lavoro straordinario dal punto di vista tecnico-legale; per un paio di mesi, dall’inizio della scrittura al debutto, avemmo la casa invasa da avvocati e giornalisti, che contribuirono all’impianto tecnico e giuridico dello spettacolo. Ovviamente c’era un grande rischio che lo spettacolo fosse bloccato e i miei denunciati per oltraggio, calunnia, diffamazione dello Stato e della polizia, quindi bisognava stare molto attenti a come si dicevano le cose.

La macchina del pazzo finto giudice permetteva di far intendere quel che non si poteva dire, di giocare di allusione, di sponda e di difendersi proprio perché quel che diceva un pazzo non si poteva prendere sul serio, anche se il pazzo parlava su di un palcoscenico e si chiamava Dario Fo. Ma ovviamente era anche essenziale che tutte le affermazioni, anche quelle sottintese, fossero fedeli alla realtà. Questo lavoro di fino impedì a Franca e Dario di cadere nei gravi errori che caratterizzarono la controinchiesta del movimento.

Ad esempio, il periodico Lotta Continua si incaponì a lungo nell’indicare il commissario Luigi Calabresi come uno dei responsabili diretti della morte di Pinelli. Ma il gruppo di lavoro che collaborò alla stesura dello spettacolo appurò subito che Calabresi non era neppure presente nel suo ufficio quando Pinelli aveva preso il volo. E non fu da poco continuare a ragionare sui fatti e attenersi fedelmente a ciò che era certo e provato senza cadere nel tifo da stadio politico e a fare di tutta l’erba un fascio…

Ma questa correttezza non fu certo ripagata dal potere. Anzi l’onestà dei miei divenne ulteriore ragione di odio perché la loro moderazione e correttezza li rendeva più autorevoli e influenti, anche presso persone che di sinistra non erano. Nel 1973, anche per il duro colpo che essi avevano dato alle menzogne di Stato, i cosiddetti servizi segreti deviati organizzarono il rapimento, la tortura e lo stupro di mia madre.

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