È saltata la discussa operazione di scambio di traghetti tra Moby e la danese Dfds attraverso la quale il gruppo Onorato contava di realizzare una plusvalenza di 70 milioni di euro funzionale a gestire alcune scadenze imminenti della sua ingente esposizione debitoria. Secondo quanto reso noto da Dfds, la compagnia ha risolto i contratti perché Moby non può rispettare i termini di consegna dei traghetti, nonostante Moby Aki e Moby Wonder fossero pronti a partire per i mari del Nord Europa dopo alcuni lavori richiesti dal committente. A bloccare il tutto infatti non è stata una causa tecnica ma legale: Unicredit, banca capofila del maxi-credito da 160 milioni di euro garantito proprio dalla flotta di Moby, avrebbe evitato di rispondere formalmente alla richiesta avanzata dal gruppo Onorato di liberare le ipoteche sulle due navi, attendendo la scadenza dei termini di consegna. Questo almeno il racconto del retroscena offerto pubblicamente dal patron del gruppo armatoriale italiano, Vincenzo Onorato, che ha accusato così Unicredit di essere “responsabile” del mancato affare ritenendo l’istituto obbligato a dare il disco verde all’operazione secondo “i termini contrattuali” e annunciando, in conseguenza, che “Moby agirà in sede giudiziaria nei confronti di Unicredit spa per ottenere il risarcimento dei gravissimi danni causati”.

Per capire l’entità di questi danni serve tornare all’8 ottobre scorso, quando il tribunale di Milano tratteggiò il quadro di una “crisi evidente” del gruppo Onorato, pur rigettando l’istanza di fallimento avanzata da tre fondi detentori dell’obbligazione Moby da 300 milioni allarmati dall’operazione danese. Oberato da un indebitamento lordo di 712 milioni e nei primi mesi del 2020 obbligato a restituire altri 50 milioni ad Unicredit e alle altre banche creditrici, il gruppo vede infatti il valore del suo bond fermo ad un terzo – a circa tre anni dal rimborso finale – ed è in attesa di capire se e quando lo Stato deciderà di prorogare la convenzione da 72 milioni l’anno per la continuità territoriale assicurata dalla ex società pubblica Tirrenia, compagnia quest’ultima nelle disponibilità di Onorato benché non abbia ancora saldato alle casse pubbliche i 180 milioni di euro ancora dovuti per il suo acquisto.

In questa situazione l’affare danese con i suoi 70 milioni di euro cash era la strada imboccata da Vincenzo Onorato per ottenere la liquidità necessaria a fronteggiare le scadenze, soprattutto, paradossalmente, a beneficio di Unicredit e delle altre banche del pool creditizio. Ecco forse perché l’armatore campano ha perso le staffe pubblicamente nel suo comunicato, indicando la vicenda “incredibile e ingiustificabile” e accusando l’istituto di credito diretto da Jean Pierre Mustier.

Gli stessi giudici del tribunale di Milano avevano infatti scritto nero su bianco che l’operazione danese era stata realizzata dal gruppo Onorato dopo l’avallo delle banche, capofila proprio Unicredit, “a patto di assorbire l’80% del ricavato”. Perché quindi si sono messe contro all’ultimo momento? Per ora dal quartier generale di Unicredit non sono arrivate risposte ufficiali, né repliche a Onorato, ma secondo i giornali il cambio di rotta sia dovuto proprio alla pressione legale dei tre fondi detentori dell’obbligazione Moby, preoccupati dalla perdita patrimoniale derivante dallo scambio di traghetti con la compagnia danese. Quelli stessi fondi che, stando a quanto segnalato dieci giorni fa dalla Onorato Armatori, si erano seduti al tavolo col gruppo per “dare seguito al piano industriale dell’azienda garantendo sia i diritti degli obbligazionisti, sia quelli della compagnia”. A ben vedere, in effetti, nell’elenco dei preservati mancavano le banche creditrici. Oltre al vero convitato di pietra di tutta la partita: lo Stato italiano.

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