Lunedì 21. Devo rientrare a Santiago. Andrés mi aspetta nel suo appartamento con vista sul Cerro Santa Lucía, a due passi dalla ‘linea di fuoco’ Baquedano-Bustamante dove si concentrano gran parte dei tumulti. Anche a Calama la situazione si è fatta critica – per strada regna una calma apparente, ma gli uffici della municipalità sono andati in fiamme e si vocifera di altri incendi appiccati ad alcuni impianti industriali. Mentre guido da San Pedro all’aeroporto la radio annuncia che tutti i voli sono stati cancellati. Decido comunque di tentare – e avrò fortuna perché il mio aereo sarà uno dei pochi a partire.

Raggiunta Santiago riprendo contatto coi media: la situazione non accenna a mitigarsi. Il toque de queda è stato esteso anche a stanotte, una folla incontenibile va assembrandosi in zona Ñuñoa e Plaza Italia; il centro è inaccessibile, continuano i saccheggi e gli scontri tra esercito e manifestanti. Concordo con Andrés di provare a raggiungerlo l’indomani e cercare per la notte un albergo vicino all’aeroporto.

Il servizio pubblico è interrotto, ma rimedio un tassì che per una cifra improponibile mi scarrozza al primo hotel affianco ai terminal. Online risultavano ancora camere disponibili, invece: niente. La hall è in gran trambusto – siamo in moltissimi nella stessa condizione: qualcuno alza la voce e si dispera, altri dormono per terra utilizzando le valigie come poggiatesta. Decido di sondare di persona gli alberghi limitrofi, trascinando la valigia tra raccordi e rotatorie, ma è uno sforzo inutile: non ci sono camere disponibili. Debbo rassegnarmi a cercare una stanza più vicina al centro. C’è posto in zona Estación Central, ma bisogna arrivarci.

Dopo vari tentativi, recupero un remís. Mi si presenta una macchina scassata, senza targa, dice, “per evitare le rappresaglie dei tassisti” (?). Per il resto, il tizio sembra affidabile. Chiedo notizie sulla situazione. Dice che non è destinata a acquietarsi perché il disagio accumulato negli ultimi 30 anni ha passato la soglia critica di sopportazione. La notte prenderà parte ai moti di piazza. Mi conferma che le azioni più violente sono coordinate da gruppi di rivoltosi organizzati e mi consiglia di lasciare il Paese (“muoversi è difficile e rischi di metterti in pericolo”). Ci affianca, in corsia di sorpasso, una berlina ben più sgangherata della nostra. Dal finestrino, i passeggeri – una tipica marmaglia lumpen incattivita, con bandane neotribali e bicipiti estrusi ricoperti di tatuaggi – esibiscono minacciosamente le loro spranghe inveendo contro il mio autista (perché mi sta trasportando, non capisco?). So solo che la sua inquietudine è palpabile e riesce affannosamente a seminarli.

Arrivo all’albergo tutto intero, ma dopo aver passato un paio di posti di blocco con militari e camionette e, ai semafori, diverse barricate alle quali prudentemente tiriamo dritti per paura che il veicolo sia preso d’assalto. “Sei fortunato, tre cuadras dopo il tuo hotel la strada è sbarrata da una trincea invalicabile. Io mi giro e vado a prepararmi per stanotte. Por favor, cuídate“.

Negli addetti all’accettazione la tensione si taglia col coltello. Temono un assalto. Proprio mentre consegno il passaporto, una pattuglia di facinorosi coperti dai passamontagna prende a calci il portone d’accesso. Solo l’intervento provvidenziale del concierge che abbassa repentinamente la serranda impedisce loro di introdursi. Fuori, intanto, il flusso di folla è continuo: tornano dal centro prima che scatti il coprifuoco, alcuni in tutta tranquillità, altri urlando, scagliando oggetti, percuotendo saracinesche e veicoli, eccitati da un’emancipatoria ebbrezza distruttiva.

La mia stanza è al nono piano. Passerò la notte osservando le colonne di fumo che s’alzano dove la città brucia, le arterie semideserte pattugliate ossessivamente dai blindati e da qualche insorto a volto coperto che sfida il divieto di circolazione. Per il resto, un lugubre silenzio, interrotto soltanto dalle raffiche d’arma da fuoco che, più rade quando si fa giorno, lasciano presagire qualcosa che nessuno saprebbe esattamente definire, che ancora non ha forma, ma che ha già preso sostanza nelle cose e alimenta un processo forse non più reversibile.

Decisiva è l’assoluta instabilità del contesto: il ‘caos’ potrebbe rientrare, represso dalla deterrenza militare e riassorbito dalle pur tardive concessioni del Governo, oppure espandersi fino a travolgere ogni cosa. Nessuno può saperlo, perché nessuno sa quale sia esattamente lo stato attuale della ‘termodinamica sociale’: quanto cioè sia prossima, o distante, dal punto definitivo di rottura dell’equilibrio.

A tarda notte commento con Andrés entrambe le possibilità. Un suo appunto delimita il problema con coscienzioso distacco: “This is the way the world ends / Not with a bang but a whimper” – “È questo il modo in cui il mondo finisce / Non con uno schianto ma con un piagnisteo”. Bisognerà allora vedere se quello dei cileni in rivolta è il “piagnisteo” di un popolo sfiancato dall’inuguaglianza o uno “schianto” rivoluzionario destinato a sbaragliare integralmente l’attuale “forma politica”.

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