Il Cile non è più una strana oasi stabile e tranquilla in America Latina, un imprevisto terremoto sociale dal basso lo scuote. Ma continua a essere un paese in cui il dibattito ha tratti europei. “In fondo cosa ha fatto Macron coi gilets jaunes? Ha fatto intervenire con forza la polizia”, si sta giustificando, mentre scrivo, un senatore della destra nel corso della diretta che seguo su Tvn. La televisione pubblica in cui i giornalisti intervistano i politici incalzandoli.

“Cosa avete risolto mandando i militari nelle strade? E col coprifuoco? Non pensate di aver buttato benzina sul fuoco?”, martellano la portavoce del governo che cerca di abbassare i toni: “Chi non commette errori?”. Seguo con intensità quello che sta succedendo, preoccupato, affascinato, incuriosito. Tanto è stato, almeno nella scenografia, militarizzato il conflitto, quanto libera e plurale appare l’informazione, con le reti sociali (che nessuno ha cercato di tarpare) che mediatizzano gli episodi più violenti degli interventi militari e polizieschi: un dibattito, quasi irrealmente pacato, si è aperto sulla necessità di urgenti riforme sociali, in termini di welfare, pensioni e salari. Ovviamente il leggero aumento del biglietto della metro, scintilla della esplosione, è già stato ritirato e dimenticato. Di che si parla, che succede? La rapidità degli avvenimenti non lascia spazio ad alcun approfondimento di cronaca che pure sarebbe necessario.

Come responsabile dei diritti umani delle Nazioni Unite, la ex presidente Michelle Bachelet ha detto che sono necessarie rapide indagini indipendenti sia sulle violenze militari e poliziesche che su quelle dei manifestanti. Ma non si capisce se definire “manifestanti” i protagonisti dei numerosi episodi di assalto e saccheggio di grandi magazzini e supermercati: è un’ondata che continua, fisicamente sganciata dalle manifestazioni ma profondamente legata al momento di ribellione. Qualcosa del genere era successo, in alcuni casi, dopo il terremoto del 2010.

Una vera tragedia che meriterebbe più attenzione è quella delle vittime di questi assalti. In due giorni, in quattro diversi episodi, 10 persone sono morte negli incendi seguiti ai saccheggi. Nessuno era dipendente dei centri commerciali. Sui media cileni non si trovano dettagli su queste vittime. E’ plausibile ipotizzare che siano dei saccheggiatori rimasti intrappolati.

Per dare una descrizione sociale e psicologica dei protagonisti di questi episodi in Cile si dice “lumpen” da lumpenproletariat, sottoproletari. Sarebbe interessante, umano e importante indagare un po’ di più. Certamente non sono dei black-block anticapitalisti ma piuttosto aspiranti consumisti che non hanno mezzi per acquistare i beni di consumo, oppure semplicemente sono i moderni “alienati“, intrisi di odio-amore per i centri commerciali di cui sono state riempite le periferie urbane. Che rapporto c’è tra il saccheggio e l’incendio? Quanta sociologia, filosofia, pena ed elaborazione del lutto meriterebbero queste dieci vittime, sperando che il numero non salga.

Intanto, più pragmaticamente e politicamente, si è diffuso in Cile il sospetto che i carabinieri e i militari non vogliano difendere i negozi, anzi che tollerino queste devastazioni per screditare la protesta presso la maggioranza dei cittadini e per legittimare così coprifuoco e presenza militare. Non c’è stata ancora una precisa denuncia pubblica di questa presunta strategia se non in questo articolo dell’autorevole Radio Bio Bio. A occhio, anche se a distanza, non escluderei nessuna ipotesi, neanche quella più semplice: che i carabinieri e i militari abbiano paura e difficoltà a intervenire in molti casi. Grottesca appare invece sicuramente l’ipotesi ventilata dal presidente Piñera e da quasi tutti gli esponenti della sua maggioranza di destra, ossia che ci sia stata una organizzazione premeditata e coordinata negli assalti vandalici alle stazioni della metro e nei primi attacchi ai centri commerciali. Quando non si vuole guardare in faccia alla realtà, alle dinamiche contemporaneamente irrazionali ma spontanee delle proteste sociali, si fa sempre riferimento a dietrologie infondate.

Cosa può succedere? Certo, Sebastián Piñera con l’impiego dei militari e con la gaffe del “siamo in guerra” ha perso irreparabilmente prestigio e consenso. Ma è impossibile che in un contesto come quello cileno si arrivi alle dimissioni o alla destituzione del presidente o alle elezioni anticipate. Più probabile un cambio di ministri e magari un tentativo – già accennato da vari esponenti della destra – di arrivare a un governo di unità nazionale. Ma le opposizioni di centrosinistra e sinistra non accetteranno. E’ possibile che concordino però un via libera a un pacchetto di provvedimenti economici di tipo almeno parzialmente socialdemocratico. Ma intanto si sgonfia, cresce o rimane vivo un movimento di protesta come quello di ieri e oggi, così incredibilmente privo, almeno finora, di leader, piattaforme, coordinamenti o anche solo assemblee?

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