L’idea tutta scandinava che un gruppo di persone più o meno qualificate si possa riunire e decidere, accompagnati da cospicue elargizioni in denaro, chi è il più bravo e il più bello (καλός κἀγαθός) non solo in alcune discipline scientifiche ma addirittura in campo morale (premio per la Pace), è difficile da digerire. Troppi condizionamenti, troppi interessi, troppi dubbi, troppa ipocrisia e poi, quando si tratta di stabilire i migliori, il principio più efficiente dovrebbe restare quello evangelico, confinato al futuro, “dai frutti si riconosce il profeta”, perché è difficile essere contemporanei di ciò che ha valore e significato assoluto.

Se poi aggiungiamo che negli ultimi anni la qualità dei premiati che sono stati scelti tra Stoccolma e Oslo – alcuni finanziati ed elargiti in nome di Alfred Nobel, altri come quello dell’economia finanziati da una banca – hanno lasciato a desiderare, un po’ per i criteri delle scelte, un po’ per gli scandali di varia natura che sono stati svelati, possiamo dire che oggi siamo tutti un po’ più disincantati. Anche il moralismo scandinavo non è esente da difetti e forse perfino i nordici lo stanno capendo.

Ergo, tolta questa patina da Ragnarok, ricondotti i vari Nobel a un premio come altri, con molti pregi, non pochi difetti e tanti, tanti soldi, anche quello dell’Economia conferito ieri diventa più simpatico, più sexy di quelli assegnati negli ultimi anni perché se non altro dà l’impressione che ci sia stata veramente l’intenzione di valutare i migliori, premiare il contributo scientifico (e pratico, trattandosi di economia) migliore, il più innovativo.

Abhijit Banerjee, Esther Duflo, Michael Kremer (i premiati) hanno veramente studiato la povertà. Sul campo, in Kenya, in India e attraverso una metodologia di ricerca sperimentale, nuova e soprattutto realistica, hanno condotto studi e verifiche dirette sul campo, uscendo dalle università, e sono stati in grado di dire quali siano effettivamente gli incentivi migliori per ridurre la povertà in determinate circostanze. Studiosi giovani, che hanno lasciato perdere la blackboard economics e si sono sporcati le mani con ricerche dirette, aiutando veramente con il loro lavoro le popolazioni oggetto delle indagini scientifiche.

L’economia che torna a fare il suo mestiere, cercare di migliorare concretamente la vita degli uomini. Un bel salto per i giurati svedesi rispetto ad anni recenti e a quel ormai famoso 1997 in cui il premio andò a Robert Merton e Myron Scholes, fondatori e teorici di fondi speculativi (fondi avvoltoio). Piace soprattutto il fatto che Esther Duflo nella sua Ausbildung abbia portato in dote un dottorato in storia economica, certamente rafforzando l’attenzione al dato empirico reale, troppo spesso trascurato od omesso nelle ricerche teoriche quantitative.

Ci diverte poi pensare che Michael Kremer abbia contratto un debito scientifico anche con studiosi come Robert J. Barro, non più alla moda, e ci confermi in questo modo che la ricerca anche in campo economico (l’economia ovviamente non è una scienza, ma non per questo va trascurata) non dovrebbe seguire le mode. Ci dà infine speranza il fatto che Abhijit Banerjee non abbia pensato solo alla propria carriera, alle proprie pubblicazioni, ma si sia adoperato per realizzare l’Abdul Latif Jameel Poverty Action Lab, una struttura costosetta ma che riesce a raccogliere cospicui fondi e ad agire concretamente là dove la povertà è ancora un fenomeno troppo diffuso.

Se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, diremo infine che anche quest’anno la teoria economica di vertice ha dimostrato di non riuscire ad abbandonare l’approccio micro, lo studio del particolare. Il tempo di nuove grandi teorie, magari imperfette ma omnicomprensive, alla Walras, alla Keynes, che ci facciano vedere il mondo in una prospettiva nuova e differente, che ci diano speranze e fiducia concrete di poter cambiare in meglio la vita dell’umanità, è ancora da venire. Per la Revolución bisogna ancora aspettare.

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