La motivazione è nobile. L’austriaco Peter Handke, classe 1942, merita il premio Nobel della letteratura per “la sua opera influente che ha esplorato con ingegnosità linguistica la periferia e la specificità dell’esperienza umana”. Se è per questo, avrebbero dovuto aggiungere che oltre alla periferia umana, Handke ha rovistato nell’inferno della bestialità umana e ha preso le difese del diavolo.

Durante il feroce conflitto nei Balcani degli anni Novanta si è schierato dalla parte dei serbi, giustificando le loro intollerabili azioni contro le popolazioni civili perché “erano stati provocati”. Ha negato la loro responsabilità nel genocidio di Srebenica (8mila musulmani maschi massacrati nel 1995, tra l’indifferenza delle forze Onu, nella fattispecie quelle olandesi). Ha difeso strenuamente il leader nazionalista serbo Slobodan Milosevic, condannato dalla Corte dei Diritti Umani dell’Aja per crimini contro l’umanità. Nel 2006 gli ha fatto un elogio funebre, dimostrando di non aver avuto alcun ravvedimento. Coerenza, sì, ma spregevole.

E’ un personaggio che divide le coscienze. Ma che unisce chi apprezza l’essenzialità della sua scrittura. Alcuni, come Ponzio Pilato, se ne lavano le mani. Le polemiche? Che c’entrano? Questo è il massimo premio letterario del pianeta, mica un premio politico. Handke meritava da anni il Nobel. Ha scontato il purgatorio. Ora merita il paradiso…

Eh, no cari miei. Chi scrive fa sempre politica. Troppo comodo dire, come ha fatto lo stesso Handke un paio di giorni fa (appena dopo aver saputo del premio), che “le mie non erano posizioni politiche”, in quanto “sono uno scrittore non un giornalista. C’è stato molto rumore quando ho scritto in modo diverso sulla guerra civile in Jugoslavia”. Diverso? Avallando le turpitudini? Chi è furibondo per questa scelta politicamente azzardata (e scorretta) degli accademici svedesi che assegnano i Nobel è il Comitato delle Madri di Srebrenica: “L’uomo che ha difeso i macellai dei Balcani non può ottenere questo premio. Può qualcuno che difende coloro che hanno commesso il genocidio ottenere un Nobel?”. Lo sconcertato e indignato Comitato invierà una petizione al Comitato dei Nobel perché il premio venga annullato.

Dimenticare, mai. Ma cercare di capire perché Handke, fortemente antifascista, figlio di madre slovena, sia diventato un fan dei serbi è fondamentale. Non deve essere fondamentalista. Spiegare non è scusare. Ho conosciuto personalmente in anni non sospetti Handke e ne ho amato anche in anni sospetti i libri, ogni tanto ne rileggo qualche capitolo. Spesso, chiedendomi: ma chi dimostra così tanta creatività, chi sperimenta con tale perizia nuove frontiere della scrittura, chi scrive queste opere meravigliose, chi dimostra questa sensibilità, questa capacità di spiegare la vita e la morte, può essere lo stesso che ha scritto il pamphlet – ricordo a memoria – intitolato Giustizia per la Serbia, un “viaggio invernale verso il Danubio, la Sava, la Morava e la Drina”?

E ancora. Chi ha scritto lo stupendo La paura del portiere prima del calcio di rigore (Die angst des Tormanns beim Elfmeter) è la medesima persona che non ha esitato a paragonare i serbi agli ebrei durante il Terzo Reich? L’autore dello struggente Infelicità senza desideri, scritto nel 1971 a poche settimane dal suicidio della madre, è colui che definì Belgrado bombardata dalla Nato come “una nuova Auschwitz”?

Salman Rushdie lo propose per il titolo di “Coglione internazionale dell’anno”. Susan Sontag annunciò che non lo avrebbe più letto. Alain Finkielkraut lo ha bollato: “E’ un mostro ideologico”. La Comédie Française eliminò dal suo cartellone una sua pièce. Olivier Py, attuale direttore del festival di Avignone, propone di boicottarne i libri. Era diventato un “impresentabile”. Geniale, ma inaccettabile. Che i membri dell’Accademia di Svezia hanno sdoganato, ben sapendo quale sconquasso avrebbero provocato. Slavoj Zizek li ha scudisciati: “Perché avete premiato uno come Handke e perseguitate uno come Assange?”.

Quel che è peggio, agli occhi dei suoi tanti detrattori, è che Handke non ha tradito il suo filoserbismo. Il 20 marzo del 2006, alle esequie di Milosevic, dice: “Io so che io non so. Non so la verità. Ma io guardo. Ascolto. Provo. Mi ricordo. Per questo sono presente, vicino alla Jugoslavia. Vicino alla Serbia. Vicino a Slobodan Milosevic”. Una settimana dopo, al settimanale tedesco Focus, giustifica perché si era recato ai funerali di Milosevic, in quel di Pozarevac: “No, Slobodan non era un dittatore”. E ancora: “No, Slobodan Milosevic non può essere bollato come il boia di Belgrado”. Spiega le ragioni del suo viaggio: “Il motivo principale era quello che volevo essere testimone. Testimone non nel senso dell’accusa e nemmeno in quello della difesa”.

Due anni dopo, è il turno di Jonathan Littell di metterlo in croce, sulla prestigiosa rivista London Review of Books: “Quando una famiglia si trova a casa sua a Foca e d’improvviso un uomo fa irruzione nella casa con un mitra, incatena la figlia al radiatore e la violenta sotto gli occhi dei genitori, non è una storia piacevole. Ok, potete dire che il mondo è così. Ma niente vi obbliga ad andare da questi criminali e a stringergli la mano. E’ osceno ed è ciò che ha fatto Peter Handke. E’ forse un artista fantastico, ma come essere umano, lui è il mio nemico (…). Peter Handke non ha ucciso nessuno. Ma è uno stronzo”.

Uno stronzo che è stato nominato cittadino d’onore di Belgrado nel 2015. Difficile separare l’opera dall’artista… eppure è ciò che ha fatto l’accademia di Svezia. Ricompensandolo con il Nobel. Lo stesso premio che lui disprezzava, “dare un Nobel a uno scrittore è una farsa grottesca”. Una “falsa canonizzazione”. Oggi, Handke ripudia la sua invettiva. E ci sarà chi penserà lo faccia per convenienza, vale pur sempre un milione di euro.

Dice il neolaureato Nobel che gli “accademici si sono corretti”. Che si stanno avviando sulla giusta strada. Bontà sua: “Quando ho criticato il premio Nobel non parlavo come scrittore ma come lettore”. Abile con le parole. Come con le capriole: “Anzi, andrò a ritirare il Premio. Il mio sarà un gesto di testimonianza”. Per il bene della letteratura, sottinteso. Poiché la letteratura “sta perdendo senso nel mondo di oggi, ma non per me. Sono convinto che la letteratura, alla fine, vince sempre”, ha detto a Repubblica che gli ha telefonato mercoledì, poco dopo l’annuncio.

Vive in Francia, dopo aver rinnegato l’Austria – la patria con la quale ha regolato i suoi conti, “paese tanto piccolo quanto cattivo”. Quando lo hanno chiamato da Stoccolma, per comunicargli ufficialmente l’assegnazione del Nobel, è rimasto interdetto. Ha chiesto, con un fil di voce: Ist es Wahr? E’ vero? Ha tradito la sua incredulità. Qualcuno malignerà: coda di paglia.

Ma qui mi fermo. Handke ha fatto la scelta di “testimoniare” il lato B della Storia, quello del Male. Stufo di sentire e leggere solo la versione del Bene. Ribellandosi alla demonizzazione dei serbi, che pure se la sono meritata. Ha voluto bruciare sul rogo dell’alterità la sua reputazione di intellettuale schierato contro l’estrema destra, in cui ha riversato la sua energia tanto infaticabile quanto disperata.

Handke è nato in Carinzia. La regione più “nera” d’Austria, dove spadroneggiava l’estrema destra e dove la minoranza slovena era stata ghettizzata. Nel 2000, il conservatore Wolfgang Schüssel fece saltare un tabù, sdoganando il partito nazionalpopulista di Jorg Haider, l’Fpo che nel 1999 aveva avuto il 26,9 per cento dei voti. Haider aveva scalato il potere lucrando sui sentimenti antislavi e rifiutando ostinatamente di applicare le disposizioni sulle minoranze previste dal Trattato di Stato siglato nel 1955 con gli Alleati, che prevedevano tra le altre cose i cartelli stradali bilingui.

La Fpo era erede del partito nazista vietato dal 1945, lo stesso Haider veniva da una famiglia di nazisti dell’Alta Austria. Aitante e sportivo, amante delle belle donne e delle auto veloci, Haider aveva capito che gli conveniva concentrare i suoi sforzi politici in Carinzia, dove il nazismo sopiva e si aspettava l’uomo forte. Uno dei suoi primi clamorosi e inquietanti atti fu quello di dedicare un monumento alla memoria delle vittime tedesche dei “massacri” commessi dai partigiani antinazisti. Che, in Carinzia, erano soprattutto sloveni.

Per rappresaglia, su pressione di Jacques Chirac, allora presidente francese, l’Europa decretò severe misure di isolamento diplomatico, le sanzioni che misero l’Austria al bando per qualche tempo. Handke è sempre stato un accanito avversario dei post-nazisti. Ma si era squalificato con la sua presa di posizione a favore dei serbi. In questo complicato contesto geopolitico, Stoccolma decise di premiare col Nobel del 2004 la scrittrice Elfriede Jelinek, considerata “la Grande Imprecatrice” della letteratura austriaca (che pure vantava già un Grande Imprecatore nella figura di Thomas Bernard). Ora la Carinzia è governata da un socialdemocratico, ma le tracce nefaste del suo recente passato sono rimaste. Le tracce che Handke combatteva. E che tuttavia lo hanno portato dalla parte di Belgrado, a difendere l’indifendibile.

Siamo in una strana, controversa zona grigia dove le contraddizioni si accavallano e i valori etici si scontrano. La Jelinek, infatti, è sempre stata solidale con Handke. Col quale, insieme al regista svizzero Luc Bondy, aveva protestato nella primavera del 1999 denunciando i bombardamenti Nato sulla Serbia. E appena saputo che Handke aveva vinto il Nobel, è stata la prima a gioirne: “Finalmente, era tempo!”.

Si può quindi definire, senza farsi pigliare da pregiudizi e schematismi ideologici, che la scelta dell’Accademia di Stoccolma è stata sia coraggiosa che spregiudicata. In linea con la disillusione dell’Occidente, 24 anni dopo il genocidio di Srebrenica, 20 anni dopo i bombardamenti Nato contro la Serbia. La disillusione di vedere trionfare, dopo il crollo del Muro e quello dell’Urss, i principi della democrazia liberale e del neoliberismo economico. Invece, prima ci sono stati i furori nazionalisti. Poi è stata messa in selvaggia discussione la democrazia liberale, mentre il neoliberismo economico ha prodotto sfracelli e spaventose disuguaglianze.

Ciò che in fondo ha capito Handke, vittima dell’incostanza e della sciocchezza, spesso e volentieri cattive consigliere. Ne è consapevole, in fondo, quando confessa: “La mia epoca, la mia nemica”.

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