di Alberto Bassi e Marco Fornasier

Si dibatte molto in questi giorni della proposta per una nuova – estemporanea o temporanea forse? – maglia per la Nazionale di calcio, ideata e sostenuta dallo sponsor tecnico: non più di color azzurro bensì verde.

La messa in discussione del colore nazionale per eccellenza almeno in ambito sportivo solleva molte dubbi e critiche; alcune note, relative alla tirannia del mercato, alla pochezza di certo design marketing oriented, ai limiti della committenza e così via. Coscienti di aprire a controverse questioni, ricche di ambiguità – cosa di più della nazione o della Nazionale di calcio? Si prega astenersi dalla lettura leghisti, pontidiani e odiatori del pallone – con il visual designer Marco Fornasier abbiamo semplicemente annotato alcuni pensieri sul rapporto progetto-identità-committenza-mercato.

Innanzitutto, una Nazionale di calcio è paragonabile a una confezione di pasta? E, per estensione, una nazione è una merce? Il pensiero corre velocemente a discorsi alati e astratti quando ci si imbatte nella divisa disegnata per uno dei prossimi impegni della Nazionale di calcio italiana. Una maglia verde. Verde scuro o ottanio, come si precisa argutamente anche su Wired.

A poco serve cercare spiegazioni sui decori o le tonalità ispirate al Rinascimento – un rinascimento usato come un tag sui social, legato a un semplicistico riferimento alla gioventù, quindi oltre a non avere nulla a che vedere con i migliori anni della Storia di questa penisola si autoconferisce una patina di raffinatezza senza palesare nessun chiaro merito storico e artistico. Il risultato è innanzitutto un superficiale e annoiato schiaffo ai canoni di riferimento di un popolo intero.

Ma non si tratta dei canoni pop o dei rozzi stilemi grafici in uso nelle sgrammaticate platee televisive, che nei decenni hanno inquinato l’orizzonte visivo degli italiani. Si tratta di simboli. I simboli in questione sono i colori dell’Italia: il tricolore e l’azzurro. In particolare quest’ultimo. L’azzurro non è solo il colore di una squadra di calcio (che, beninteso, non è un club, è la Nazionale), ma è il più importante colore “singolo” in uso nella nostra terra, dalla gente e pure dalle istituzioni (perché, a ben vedere, gli altri tre acquistano significato solo quando si combinano assieme).

Noi lo abbiamo usato storicamente in diversi modi, e uno di questi, il più comune, è quello delle maglie delle nazionali sportive. “Azzurri”, poi, è un termine che si usa in sostituzione di “nazionale di calcio italiana”, e il solo fatto che venga usato all’estero lo rende anche un strumento di soft power verso il resto del mondo.

Se proprio si voleva manipolare il blu in chiave “rinascimentale” ci si sarebbe potuti ispirare a qualche cielo di Raffaello. Il serpentino è un tipo di marmo verde italiano, certamente una nostra grande ricchezza e risorsa artistica e culturale, ma, a quanto pare dalle immagini giunte a noi, il riferimento della maglia verde è un tessuto con un motivo floreale che ricorda le tappezzerie di certi palazzi italiani. Bellissimi, per carità, ma li preferireste agli affreschi?

Tornando ai simboli, quando si opera per modificarli è quando sono palesemente superati, vecchi, privi di vita. Oppure lo si fa per distruggerli, denigrarli, abbatterli, quando sono simboli di ere catastrofiche o dittatoriali. Ma non potrà trattarsi di questo, qui siamo in ambito sportivo! Che è da sempre uno dei veicoli per migliorare le società umane. Allora è il primo argomento? Quello del simbolo “superato”?

No di certo; alcuni elementi – certo forse più fluidi che in passato – continuano ad accomunare persone che vivono su questo territorio con almeno alcuni pezzi di storia, cultura, letteratura, arte e natura inequivocabilmente condivisi. A cominciare dalla piccola grande banalità di una maglia azzurra. Allora cos’è che ha mosso coloro che hanno operato questa scelta? Fondamentalmente si intravede la cooperazione di due fattori.

Il primo è la scarsità culturale del marketing e il secondo i limiti dei controllori. Il primo ha agito con il simbolo di una nazione con le logiche di una squadra di club, per cercare nuovi stimoli commerciali sui quali spendere il brand Italia, rincorrendo nuovi mercati e acquirenti. I secondi perché non si sono accorti che le regole dello scaffale del supermercato stavano contaminando quello che non può essere contaminato, che hanno il dovere di proteggere e onorare e far sì che acquisti sempre maggior onore e prestigio. E non si dovrebbe piegare alle logiche mercantilistiche del fatturato.

Altro pensiero potrebbe essere fatto sull’opportunità di far vestire la propria nazionale da un brand multinazionale; soprattutto dopo le distruzioni lasciate dalla crisi, far lavorare qualcuno dei tuoi sarebbe stato un gesto virtuoso, in particolare in un paese con una certa tradizione nel mondo dell’abbigliamento. Perché scomodare questo particolare argomento? Perché un’altra sgradevole sensazione che questa operazione lascia è quella della scarsità culturale degli attori in gioco.

Non ci è dato sapere se gli uffici che hanno progettato questa maglia – in Italia o dove ? – abbiano sufficientemente approfondito e ricercato sulla storia e la simbologia del nostro paese. Non traspare nulla, sembra tutto così naturale, con la stessa leggerezza della presentazione di una terza maglia del Liverpool o del Napoli. Come se fossero la stessa cosa. Modificati e aggiustati per questioni di immagine, budget, posizionamento sul mercato, spazio sui quotidiani.

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