Per comprendere come l’Unione europea, critica verso l’ergastolo ostativo – previsto per chi si è macchiato di gravi delitti di mafia – non possieda gli strumenti culturali per capire la natura di un tale provvedimento, partiamo da un esempio. Totò Riina nell’ultimo periodo della sua prigionia dice alla moglie: “Io non mi pento (…) mi posso fare anche 3000 anni”. Non si commetta l’errore di credere che questa affermazione nasconda la tenacia di chi crede di pagare il fio di una giusta causa conto uno Stato oppressore, o l’irriducibilità tipica di alcuni brigatisti storici. In entrambi questi casi, infatti il riferimento è a una legge, combattuta ma riconosciuta come tale.

Semplicemente Riina, come i tanti boss della mafia, parla come chi non contempla un’altra scelta oltre ai codici mafiosi perché nato, formato e forgiato in un mondo dove vige un’altra legge, per natura opposta alla lex democratica che regola lo Stato. Non parliamo di un uomo che a un certo punto della sua vita sceglie di violare leggi che lo hanno comunque accompagnato, cresciuto e guidato, consapevole che trasgredirle comporta un rischio accettabile. Chi nasce nel mondo della mafia e ne occupa i vertici cresce introiettando e facendo propria un’altra lex, diversa e opposta alla nostra, esattamente come noi facciamo nostro il codice civile e penale e lo tramandiamo ai figli.

L’Europa che ci condanna ignora che non ci può essere in questi casi pentimento nel senso autentico della parola, inteso cioè come ravvedimento coscienzioso di una trasgressione compiuta, perché nell’animo di chi comanda Cosa Nostra (non in quello dei “soldati acquisiti”) esiste una sola condotta possibile. Il “fine pena mai” è considerato un atto di disumanità solo per chi non conosce la mafia, che implica l’impossibilità di abdicare al ruolo di capo. L’altro mondo, quello dei giudici e degli “sbirri”, cioè il nostro, rappresenta una modalità di declinare la vita con la quale non ci potrà mai essere che sotterranea connivenza, tentativo di influenza reciproca o guerra aperta.

Lo Stato, qualsiasi Stato che si sia consolidato su basi democratiche, ha sempre trattato con i mondi fuori legge. L’Italia non fa eccezione a questa regola di edificazione e mantenimento di uno status quo democraticamente regolato. Si pensi allo sbarco alleato in Sicilia, o ai i canali sotterranei del patto Stato-mafia. Per un capomafia lo Stato non diventa nemico quando ti alza le tasse o ti perseguita con le cartelle esattoriali. Lo Stato è un nemico a prescindere.

Il 41bis non fu il disegno sadico di un legislatore che godeva nel vedere un uomo ridotto al silenzio. Il 4° bis è la conseguenza giudiziaria della consapevolezza che il boss non possiede il concetto di reato, ma ragiona e si muove secondo una logica di guerra tra due universi opposti, vigendo nel primo la democrazia e la collegialità, nell’altro la dittatura verticistica, il controllo del denaro e degli uomini ottenuto attraverso la violenza, nonché l’eliminazione delle regole del libero mercato in funzione del potere assoluto delle famiglie. Trattandosi di una guerra, non può prevedere la messa in libertà di chi, una volta fuori, non potrà che continuare nel proprio progetto di distruzione di un entità che avverte come nemica ab origine.

Quando nel film La caduta viene data la notizia della morte di Hitler, alcune SS si tolgono la vita. Giovani ragazzi nati e forgiati con le devozione al tiranno come elemento costituivo non potevano pensare esistesse un altro modo di vivere, da qua il loro “non possiamo sopravvivere alla morte del Fuhrer”. Se vogliamo parlare di carità umana e di necessità di concedere a chi è nostro nemico la possibilità di vivere fuori dalle sbarre, parliamo di un atto di clemenza individuale che non può sottintendere una prospettiva di reintegro perché, come Gratteri ha ben spiegato, un capomafia uscito dal carcere non potrà che essere tale, sino alla fine dei suoi giorni.

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