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Quando nacque la radio gli italiani non si mostrarono così interessati

Quando nacque la radio gli italiani non si mostrarono così interessati
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“Uri, Unione radiofonica Italiana, 1 RO, stazioni di Roma, lunghezza d’onda metri 425…” con questo annuncio iniziavano le regolari trasmissioni radiofoniche in Italia, 95 anni fa. Erano le 21 del 6 ottobre del 1924 e Ines Viviani Donarelli presentava il concerto inaugurale della prima emittente radiofonica italiana nel corso del quale lei stessa avrebbe suonato, in un quartetto d’archi, musiche di Haydin. Una precisazione: l’annunciatrice ufficiale era un’altra signora, la mitica Maria Luisa Boncompagni che avrebbe affascinato con la sua voce incantevole i radioascoltatori per i trent’anni successivi. Ma Ines Viviani era, oltre che una violinista, anche la moglie del direttore artistico dell’Uri. Lasciamo da parte i pettegolezzi e pensiamo a cose più serie, alla storia.

L’Uri, come ente, era nata qualche mese prima da una fusione tra una società privata del gruppo Marconi e una concessionaria, voluta dal ministro Galeazzo Ciano, autorizzata a riscuotere il canone. Non mancava, tra i finanziatori privati, la presenza della Fiat, così che la prima presidenza dell’Uri andò proprio al direttore Fiat, mentre, sul versante politico, oltre a Ciano, era stato forte per la costituzione del nuovo ente l’interesse di Mussolini.

D’altronde l’Italia non poteva più aspettare troppo a dotarsi di un suo servizio di comunicazione radiofonica. Negli Usa dopo la fine della Prima guerra mondiale era cominciato un vero e proprio boom della radio, con una proliferazione delle emittenti (nel 1924 erano più di un migliaio) prodotta dal Radio act ultraliberista del 1912 e con una grande risposta da parte dell’utenza, come testimoniano le centinaia di migliaia di dollari spesi per l’acquisto di apparecchiature. Anche alcuni paesi europei si stavano organizzando: in Inghilterra la British Broadcasting Company, che aveva incorporato le varie società produttrici di tecnologie della Marconi Company, preparava la sua conversione in Corporation di natura pubblica “chartered” e finanziata da 2 milioni di abbonati.

In Italia, la patria di colui che aveva inventato la tecnologia e l’aveva portata in tutto il mondo, invece le cose non andarono così bene. L’interesse e la geniale creatività che i futuristi manifestarono per il nuovo mezzo e che confluì nel celebre manifesto marinettiano, ebbe ben pochi riscontri pratici nella programmazione quotidiana. I palinsesti dell’Uri che possiamo conoscere attraverso il suo “house organ”, il Radiorario, analizzati qualche anno fa in un bel libro di Luigi ParolaE poi venne la radio – non rivelano grandi invenzioni e alternano musica e conversazioni culturali, con qualche spazio per il teatro e l’introduzione nel 1927 della pubblicità.

L’interesse che il nuovo mezzo suscitò negli italiani in quei primi anni fu molto modesto e modesta, di conseguenza, la diffusione della radio nelle case: alla fine del 1927 gli abbonati erano poco più di 40000, lo 0,5% delle famiglie. Il problema spinse il regime fascista a un intervento molto deciso. Un regio decreto del 17 novembre 1927 sancisce la fine dell’Uri, a tre anni dalla sua nascita. Al suo posto si istituisce l’Eiar, che inizialmente rispetta, nella scelta dei dirigenti, una certa continuità con il passato ma tenderà, sempre più chiaramente, a inserire il nuovo ente nel progetto di fascistizzazione del paese, come rivela la designazione alla vicepresidenza di Arnaldo Mussolini, fratello di Benito e direttore del Popolo d’Italia.

Ma questa è un’altra storia e la racconteremo in un’altra occasione.

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