La sentenza della Corte Costituzionale sulla non punibilità di Marco Cappato, per avere assistito il dj Fabo a porre fine alle indicibili sofferenze di una vita apparente, non è un “liberi tutti e ammazzatevi come volete”. La Suprema Corte, con disappunto e dispiacere, prende atto di doversi ancora una volta sostituire al Parlamento, inadempiente nei momenti più importanti del suo “doveroso magistero” di legislatore che non può delegare ad altri.

La Corte aveva concesso un anno. Invano. Undici mesi trascorsi inutilmente a rincorrere farfalle sotto l’arco di Tito, undici mesi di guerricciola infantile tra 5S e Lega a chi la sparava più grossa, logicamente “per il bene dell’Italia” o, più esattamente, del “popolo”.

Il Parlamento non ha avuto tempo per legiferare sul delicato momento di disporre e come dell’atto finale dell’esistenza, sottoposta a sofferenze, costretta a sopravvivenza spesso indegna di un essere umano. Eppure, il tempo per giocare al Papeete o per far divertire il figlioletto sull’acquascooter della Polizia, o per fare cadere il governo per poi volerci rientrare subito… questi indegni rappresentanti del popolo lo hanno trovato anche in piena estate, anche il 15 agosto.

Per legiferare sulla vita e la morte degli italiani non hanno avuto e non hanno tempo. Ora, di fronte alla Corte che li obbliga a svegliarsi e a guadagnarsi il lauto mensile, cominciano a fare i distinguo, come se loro fossero stati in stato di amnesia incolpevole.

Dall’altra parte, è partito subito il siluro ricattatorio dei “medici cattolici” pronti a farsi obiettori, supportati apertamente dalla Cei, che li istiga su questa strada. Non so se possono esistere medici cattolici o protestanti o atei o animisti, perché dovrebbero esserci solo medici che poi, nella loro vita personale, sono credenti, non credenti, ancipiti, credenti a tempo o a circostanza, atei per convinzione o per cultura. Costoro stanno creando una confusione tipica di chi gioca sporco per mestare nel torbido e imbrogliare le carte, come se si trattasse di una decisione tra vivere e morire con l’obbligo di ammazzare le persone in determinate occasioni.

La Suprema Corte non ha sancito la libertà di morire a piacimento o l’obbligo di praticare l’eutanasia a richiesta. Essa ha solo detto che il Parlamento ha l’obbligo impellente di legiferare e che fino a oggi è venuto meno ai suoi doveri. Nel frattempo ha dichiarato non punibile una persona specifica che è stata accanto a un’altra persona che liberamente, consapevole, pienamente cosciente, ha deciso senza pressione esterna di porre fine non alla propria vita, ma all’insopportabile “parvenza di vita”. Tecnicamente non si tratta nemmeno di “assistenza al suicidio”, ma accompagnamento solidale e amicale per realizzare un desiderio (che noi riteniamo un diritto – la Corte conferma) di chi da solo non l’avrebbe potuto materialmente realizzare, perché incapace di muoversi o di autogestirsi.

I credenti dovrebbero vedere in questo il gesto del “farsi prossimo” a chi non ha le forze di essere se stesso e sono convinto che se Gesù fosse oggi qui sarebbe stato accanto a Fabo e lo avrebbe consolato fino alla fine, fino all’ultimo respiro di liberazione, scelto liberamente e consapevolmente. Forse i credenti e i vescovi che protestano avventatamente, minacciando sfracelli, non hanno mai assistito la propria mamma o un congiunto senza alcuna speranza ulteriore di vita, mentre sopravvive in un abisso di indicibili sofferenze insopportabili, tanto da indurre il figlio a supplicare il Signore della vita a prendersela e a porre fine a quell’inferno senza più dignità e umanità.

La vita è sacra finché è “vita umana”, se non è più umana non è degna dell’uomo; la sofferenza è un valore se scelta coscientemente come dimensione di esistenza, ma non quando è imposta dall’esterno, senza più lucidità di sapere “dove si è”. Non esiste la sofferenza fine a se stessa, perché nemmeno Dio può pretendere che una persona soffra indicibilmente, avendo davanti a se comunque la prospettiva della morte: sarebbe un dio sadico, assetato del sangue dei suoi sudditi, non un Padre che ama i suoi figli. Un dio così è meglio perderlo e anche subito.

Un minimo di decenza imporrebbe a tutti di fare silenzio di fronte alle sventure degli altri, senza volere imporre la propria fede o la propria visione di vita, o la propria morale, perché lo Stato di Diritto non è di nessuno ma di tutti, e deve legiferare per tutti e non per qualcuno più uguale degli altri. Difendere la “vita astratta”, avulsa dalla concretezza delle singole persone, è la più grande offesa che si possa fare anche al Dio di Gesù, che inveisce contro scribi e farisei che “legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (Mt 23,4).

Il canonico Eustachio Dègola, il 22 maggio 1873, davanti alla salma di Alessandro Manzoni a chi gli chiedeva un giudizio rispose: “Adorare, Amare e tacere”.

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