Anche se il suo nome evoca immediatamente quello di un’altra città, Bologna con i frati minori dell’Antoniano, Lo zecchino d’oro è nato il 24 settembre di 60 anni fa a Milano.

La sede Rai di Milano in quegli ultimi scorci di anni Cinquanta era una fucina di idee e di produzioni televisive: non solo Lascia o raddoppia?, come sempre si racconta, ma la musica, il teatro. Così, su richiesta della Fiera del bambino, Cino Tortorella ideò e realizzò quella che, nelle sue intenzioni, doveva essere la versione per l’infanzia del Festival di Sanremo.

Per verificare quanto ci sia stato della Rai milanese nello Zecchino, anche dopo il suo trasferimento a Bologna nel 1961, basta scorrere in nomi dei registi: Romolo Siena, regista anche di Lascia o raddoppia?, Maria Maddalena Yon, Lydia Ripandelli, Beppe Recchia, tutti molto legati all’attività della sede di Milano. Ma – è ovvio – nella storia di un programma come Lo zecchino d’oro oltre alla qualità della regia hanno contato molto la figura del conduttore, le proposte musicali e i loro interpreti.

Con il trasferimento bolognese e la creazione di un apposito coro affidato alle attenzioni di Mariele Ventre, cominciò l’epoca d’oro, quella dei Quarantaquattro gatti, del Walzer del moscerino, di Fammi crescere i denti davanti, Popov e Dagli una spinta, con la presenza tra gli autori delle canzoni di Gorni Kramer, Fred Bongusto, Tony Renis, Memo Remigi, Mogol, per citarne alcuni.

Ma, come accade a tutti i prodotti gratificati da una grande popolarità, anche la storia dello Zecchino è segnata da una serie di polemiche. Lasciando da parte quelle più recenti sollevate dal suo inventore che, negli ultimi anni della sua vita, ne denunciò insistentemente la decadenza, mi sembrano più significative quelle emerse proprio negli anni del massimo splendore, i Sessanta e Settanta. Si muovevano due accuse al programma. La prima, quella di favorire una pericolosa tendenza a un divismo precoce, infantile, fu accettata dallo stesso Tortorella che si impegnò in prima persona a far sì che lo Zecchino fosse sempre e solo una gara tra canzoni e mai tra cantanti. La seconda, più dura e ampia, riguardava in generale l’immagine dell’infanzia costruita attraverso quelle canzoni e le esibizioni canore dei bambini-cantanti: un’immagine assolutamente rasserenante, idilliaca, un po’ (secondo alcuni molto) sdolcinata. Una rappresentazione antitetica rispetto alle visioni del mondo critiche, conflittuali, alle esigenze di impegno che si affermavano in quegli anni.

Che dire? Sarei molto curioso di vedere come vengono giudicate quelle polemiche oggi, a distanza di tanti anni. Personalmente sarei propenso a dire che in quei giudizi negativi c’era molta – forse un po’ troppa – severità, soprattutto vedendo quello che di peggio si è fatto in seguito, anche nel servizio pubblico e con grande successo e con il coinvolgimento di alcuni mostri sacri.

Mi pare, infatti, che si debba riconoscere allo Zecchino qualche merito importante. Prima di tutto quello di aver sempre dato il giusto spazio alla spontaneità dei bambini, eliminando lo scimmiottamento degli atteggiamenti adulti. Inoltre, il programma non cadde mai nella trappola della celebrazione del fenomeno, cosa che invece rese intollerabile il Bravo bravissimo di Mike Bongiorno, e fu sempre attento a non cedere alla complicità di quegli ammiccamenti che mandano in sollucchero genitori e nonni.

Oggi, a 60 anni dalla nascita, con un consumo televisivo e musicale totalmente cambiato, anche lo Zecchino non è certo più quello di una volta in termini di partecipazione e popolarità, ma sarebbe bello che continuasse a tenere fede a quei suoi sani principi.

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