Bisogna riconoscere che Matteo Renzi è davvero un ragazzo prodigio: giovanissimo primo ministro di una nazione che è prima al mondo per i tesori storico-artistici e tra le prime dieci per potenza economica, ha dovuto subire la severa degradazione al ruolo di “senatore semplice” dopo che tutte (o quasi) le sue iniziative politiche, sbandierate come riforme per far correre la nostra economia, hanno sostanzialmente fallito l’obiettivo con pesanti ricadute peraltro sulla nostra “classe operaia”.

La sua sbandata peggiore però, sul piano politico, è stata quella in cui ha tentato di fare a pezzi la nostra Costituzione per riformarla profondamente, allo scopo di snellire il Parlamento e garantire agli italiani che, un minuto dopo la chiusura delle urne, avrebbero saputo subito chi avrebbe governato l’Italia per l’intera legislatura (gli italiani però, avendolo ormai visto governare, questa cosa la sapevano già anche prima del voto).

Da vero condottiero, è riuscito, dopo la conquista della segreteria del partito, a lasciare dietro di sé una lunga fila di “vittime eccellenti” nel suo stesso partito, sterminate dal suo “fuoco amico”. Ha cominciato con Pierluigi Bersani che, fucilato da Beppe Grillo, non ha mai trovato in Renzi un aiuto solidale. Ha poi servito con perfetta noncuranza un calice all’arsenico per Enrico Letta (non perché governasse male, ma perché lui è semplicemente il migliore). Poi, uno via l’altro, ha silurato nella corsa al Quirinale personaggi del suo partito di grande spessore ed esperienza quali Stefano Rodotà, Franco Marini e Romano Prodi, preferendo puntare nel 2013 sulla rielezione di Giorgio Napolitano e nel 2015 puntando su un personaggio, Sergio Mattarella, in quella competizione considerato un “peso leggero”.

Dopo il risultato disastroso (per lui) del “Referenzum” lascia la poltronissima di premier, ma non ha mollato quella di segretario (che ancor più per coerenza col risultato e per la sua avventata dichiarazione di abbandonare l’attività politica, avrebbe dovuto lasciare), mantenendo così il controllo del partito e del Parlamento (dove il partito aveva ancora una forte maggioranza grazie al “Porcellum”).

Ma lui non si dà mai per vinto, sa di essere il migliore e vuole che glielo lascino dimostrare (naturalmente ridandogli tutto il potere, se no come fa?). E’ arrivata finalmente nel marzo dello scorso anno la “prova della verità”, cioè il voto politico finalmente svolto con la sua legge elettorale: il “Rosatellum”. Un vero capolavoro di ingegneria politico-istituzionale che garantisce al popolo di votare senza aver capito niente di come funziona.

Però si è capito subito chi ha vinto (i Cinque stelle) anche se poi, per fare il governo, ci son voluti tre mesi (dopo che lui, da segretario ombra, ha detto no a fare il governo in coalizione coi vincitori). E nato così il primo governo Conte guidato da un premier senza partito (Giuseppe Conte) e sostenuto nel Parlamento da una maggioranza politica (Lega+M5s) tenuta insieme da un “contratto” che, bene o male, per circa un anno ha tenuto botta portando a compimento qualche importante riforma. Probabilmente Renzi aveva sottovalutato sia Conte che Matteo Salvini, ma ormai “cosa fatta capo ha!”.

A guadagnarci di più è stato Salvini, che nel frattempo aveva raddoppiato i suoi consensi, ma poi ha pensato di materializzarli subito (in combutta con i suoi alleati naturali della destra) chiedendo di andare al voto. Detto, fatto! Il governo è caduto e tutti si aspettavano che Mattarella sciogliesse le Camere. Invece è arrivata, completamente inaspettata, la mossa di Renzi, che non voleva elezioni anticipate, prevedendo che dal voto avrebbe perso buona parte dei suoi fedelissimi nel partito.

Renzi ha anticipato tutti (incluso il suo segretario Nicola Zingaretti), ha incontrato segretamente Grillo (boss in incognito del M5s) e ha concordato in barba a tutti la nuova alleanza per un governo M5s-Pd (al quale proprio Renzi aveva sdegnosamente detto “no” un anno fa). Questo fulmineo accordo tra i due ha consentito al presidente di far ripartire le consultazioni per la formazione del nuovo governo a maggioranza M5s-Pd.

La mossa inaspettata di Salvini in pieno agosto ha fatto cadere il governo giallo-verde, quella di Renzi ha fatto deragliare le speranze di elezioni anticipate a quelli che le volevano. Salvini si è accorto troppo tardi di avere il fianco scoperto da quella parte ed è caduto. Zingaretti, che quell’accordo non lo voleva per paura di veder tornare Renzi a comandare più di lui nel partito, ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Ma poi, nella formazione del nuovo governo, ha lasciato a Renzi e ai suoi fedelissimi solo briciole di potere, invece che le agognate poltrone, generando in lui e nei suoi forte delusione.

Ma stavolta Renzi non è riuscito a sopportare l’emarginazione e, intravedendo la possibilità di ricostruirsi una posizione di potere uscendo dal Pd fondando un nuovo partito, contava di prendere due piccioni con una fava: da un lato avrebbe continuato a godere della sua residua maggioranza parlamentare, dall’altro lato, garantendo il suo sostegno al nuovo governo Pd-M5s (finché gli conviene), avrebbe avuto l’effettivo controllo sul governo stesso, assicurandosi quindi un potere immensamente maggiore di quello reale che avrebbe avuto restando nel Pd.

Con queste mosse Renzi ha dimostrato grande capacità strategica e perfetto tempismo, oltre alla sua già nota abilità pragmatica di fare tutto ciò che, a suo modo di vedere, conviene al paese. Purché gli venga universalmente riconosciuto che non c’è nessuno migliore di lui .

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